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La bara della libertà apre il corteo: Torino in piazza per l’imam Shahin

Da largo Marconi a piazza Castello, striscioni e una bara simbolica contro il decreto di espulsione. Centinaia di persone chiedono la liberazione di Mohamed Shahin, trattenuto nel Cpr di Caltanissetta, mentre il governo parla di sicurezza nazionale

La bara della libertà apre il corteo: Torino in piazza per l’imam Shahin

La bara della libertà apre il corteo: Torino in piazza per l’imam Shahin

Una bara artigianale in legno, portata a spalla, con una scritta netta, quasi brutale: “Libertà di espressione”. È questa l’immagine che apre il corteo regionale per la Palestina partito nel pomeriggio da largo Marconi e diretto verso piazza Castello, nel cuore di Torino. Un corteo partecipato, compatto, attraversato da slogan, striscioni e voci che chiedono una sola cosa: la liberazione di Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo, nel quartiere San Salvario, destinatario di un decreto di espulsione e attualmente trattenuto nel Cpr di Caltanissetta.

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In testa al corteo campeggia uno striscione in inglese che riassume il senso della mobilitazione: “Free Shahin, nobody should be deported for supporting Palestine”. Dietro, centinaia di persone – secondo gli organizzatori circa un migliaio – sfilano nel centro cittadino in quella che è la prima grande manifestazione pro Palestina a Torino dopo l’assalto alla sede de La Stampa. Un passaggio non secondario, che pesa sul clima politico e simbolico della giornata, segnata da una forte attenzione delle forze dell’ordine.

Dal camion con l’impianto audio, gli organizzatori di Torino per Gaza prendono la parola e scandiscono i motivi della protesta. “Siamo qui perché un nostro compagno, un nostro fratello, un uomo innocente è rinchiuso in questo momento nel Cpr”, affermano al microfono. “Mohamed ha camminato con noi per anni nelle strade di questa città per chiedere una Palestina libera”. Parole che raccontano un legame costruito nel tempo, dentro le mobilitazioni, nei quartieri, nelle iniziative di solidarietà.

“È un uomo che in oltre vent’anni trascorsi qui ha dimostrato cosa significa solidarietà, sempre dalla parte degli ultimi”, aggiungono gli organizzatori. “Tutta la città e tutto il quartiere hanno detto con chiarezza che rivogliamo Mohamed, perché per noi rappresenta un pilastro e viene punito per aver scelto di non girarsi dall’altra parte”.

Il nome di Mohamed Shahin è diventato, nel giro di pochi giorni, un simbolo che va oltre la sua vicenda personale. Un simbolo che incrocia il conflitto israelo-palestinese, la libertà di parola, le politiche migratorie e il tema, sempre più centrale, della sicurezza nazionale. Il caso esplode dopo alcune dichiarazioni pronunciate dall’imam in piazza Castello il 7 ottobre, parole finite sotto la lente delle autorità e che hanno portato all’adozione del decreto di espulsione.

Sul fronte istituzionale, la risposta del governo arriva direttamente dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che interviene sull’argomento parlando ad Atreju. “L’imam di Torino sta bene, è ristretto in un Cpr italiano a Caltanissetta in condizione di legittima privazione della libertà personale”, afferma il ministro, precisando che il provvedimento “ha resistito ai primi ricorsi che l’interessato ha legittimamente proposto”. “Dopodiché sta benissimo”, aggiunge, in una frase che non passa inosservata e che viene accolta con indignazione dai manifestanti.

Piantedosi insiste su un punto: “Il provvedimento parla chiaro. Non c’entra il fatto di essere un imam, non c’entra l’Islam”. A motivare l’espulsione, secondo il ministro, sarebbero “alcune frequentazioni e alcuni comportamenti che per motivi di sicurezza nazionale hanno indotto l’autorità nazionale ad assoggettarlo a quel provvedimento”. Una linea che prova a separare il piano religioso da quello politico e securitario, ma che per i sostenitori di Shahin rappresenta esattamente il problema: l’uso della sicurezza come categoria elastica, capace di colpire il dissenso.

La mobilitazione non si limita al corteo del pomeriggio. Già nella mattinata, davanti al Museo Egizio, va in scena un flash mob di solidarietà. Due striscioni vengono affissi all’ingresso: “Chi lotta per la Palestina lotta per la libertà” e “Stop deportazioni, Shahin libero, liberi tutti”. Volantini con lo slogan “Stop deportazioni, Shahin libero” vengono lanciati a terra davanti ai turisti in coda. Sul posto interviene la Digos della Questura di Torino, che avvia accertamenti.

La giornata torinese restituisce così l’immagine di una città attraversata da una tensione profonda. Da un lato le piazze, le bare simboliche, le parole sulla libertà di espressione; dall’altro la linea dura del Viminale, che rivendica la legittimità del provvedimento e nega qualsiasi collegamento con la religione islamica. In mezzo, la figura di Mohamed Shahin, trattenuto a centinaia di chilometri di distanza mentre a Torino il suo nome continua a riecheggiare tra le strade del centro.

Insomma, non è solo la storia di un imam e di un decreto di espulsione. È il riflesso di un conflitto più ampio, che mette in discussione il confine tra sicurezza e diritti, tra solidarietà internazionale e politica interna, tra libertà di parola e repressione del dissenso.

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