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Sentinella del Canavese: fine del film. Colpa degli eporediesi...

Il passaggio di mano della Sentinella segna la fine di un’illusione: quella di un giornale “di Ivrea” in una città che non ha voluto sostenerlo

Sentinella del Canavese: fine del film. Colpa degli eporediesi...

Sentinella del Canavese: fine del film. Colpa degli eporediesi...

C’è preoccupazione a Ivrea. Una preoccupazione forte, tangibile. Dei giornalisti. Della classe politica. Di chi ha sempre considerato il giornale tutt’uno con i muri, con le strade, con i palazzi, con Olivetti, con il Carnevale, con San Savino, con la Diocesi, con il Comune. Un patrimonio. Qualcosa che non era semplicemente un prodotto editoriale, ma un pezzo di città, una voce che accompagnava le stagioni industriali, i conflitti sociali, le crisi, le illusioni, le cadute e le ripartenze.
Ebbene sì. È certo. Arriva Ladisa. S’è comprato tutto. Fine del film.

E da qui in avanti, conviene smetterla con le formule di cortesia e con il politicamente corretto. Perché l’operazione Sentinella del Canavese, storica testata fondata nel lontano 1893, non sarà una favola a lieto fine, né un romantico passaggio di testimone. Sarà un’operazione industriale. Punto. E come tutte le operazioni industriali va letta per ciò che è, non per ciò che si vorrebbe che fosse. Gedi se l’è fatta fuori e uscirà dal perimetro prima ancora di vendere tutto (La Stampa, Repubblica, radio...) ai greci di Antenna. Un antipasto “freddo” allo spezzatino di cui tutt’Italia sta parlando. 

Il gruppo Ladisa, che fa capo alla holding Finlad dei fratelli Vito e Sebastiano Ladisa, è uno dei grandi colossi italiani della ristorazione collettiva. Non dell’editoria. Non dell’informazione. Della ristorazione. Un settore in cui il gruppo produce oltre 25 milioni di pasti all’anno, opera in circa 700 strutture distribuite in 17 regioni, impiega più di 4.000 dipendenti diretti, che diventano oltre 5.000 se si considera l’intera galassia di società controllate, collegate, subappaltatrici. Più di 20 stabilimenti industriali, una rete logistica enorme, contratti pluriennali con enti pubblici, scuole, ospedali, aziende, forze armate. Un fatturato che viaggia stabilmente su centinaia di milioni di euro.

Ladisa, per la cronaca, in Piemonte c’è già. Da tempo. Gestisce mense scolastiche, ha un centro cottura a Torino, prepara decine di migliaia di pasti all’anno per aziende in provincia di Torino e di Cuneo, lavora con amministrazioni pubbliche, multinazionali, istituzioni. Il Piemonte, per Ladisa, è un territorio già mappato, già conosciuto, già “servito”.

Ma è proprio questo il punto che fa paura. Perché Ladisa conosce il Piemonte come mercato, non come comunità. Lo conosce come luogo dove si vincono appalti, si producono pasti, si ottimizzano costi. Non come territorio da raccontare, da intervistare, da interpretare, capire nelle sue fratture profonde. E Ivrea, con i suoi 23 mila abitanti, con un Canavese fatto di comuni piccoli, frammentati, spesso mal serviti dalle edicole, non rientra in nessuna logica di scala industriale.

Ladisa

Diciamolo senza ipocrisie: a Ladisa di Ivrea, del Carnevale, della battaglia delle arance, della Fondazione, delle dinamiche politiche eporediesi non importa e non importerà un fico secco. Non perché siano cattivi o arroganti, ma perché non serve al loro modello. Non produce numeri. Non produce volumi. Non produce massa critica. Ivrea, da sola, non sta in piedi come progetto editoriale industriale. E questo lo sanno tutti.

Per questo l’idea non è salvare Ivrea, ma superarla. Allargare il perimetro. Trasformare la Sentinella in qualcosa di diverso: un giornale macro-territoriale, regionale, o quantomeno canavesano-piemontese, dove Ivrea diventa una territorio, una tappa, non il centro. Un luogo simbolico buono per qualche pagina, per qualche richiamo identitario, ma non per guidare la linea.

L’esperienza pugliese lo dimostra. Prima c’è stata la Gazzetta del Mezzogiorno, storico quotidiano fondato nel 1887, finito in crisi dopo il fallimento della società editrice. I Ladisa, attraverso la Ledi, ne hanno gestito per mesi l’affitto del ramo d’azienda. Un’operazione raccontata come salvataggio, ma che non ha mai portato a una vera stabilizzazione. La Gazzetta è rimasta sospesa, fragile, e alla fine quell’esperienza si è chiusa senza un’acquisizione definitiva, lasciando dietro di sé polemiche, fratture e un patrimonio storico mai davvero rilanciato.

Subito dopo è nata L’Edicola del Sud, poi L’Edicola. Un giornale nuovo, costruito a tavolino, con una formula precisa: cronaca locale sì, ma zero ideologia, zero conflitto frontale, grande attenzione agli strumenti commerciali. Abbinamenti editoriali, promozioni, copie vendute insieme ad altri prodotti, i famosi “panini” che servono a far crescere le tirature in un mercato in crisi. I numeri, così, arrivano. Le copie circolano. Ma è un successo numerico, non culturale. Funziona come prodotto, non come coscienza critica.

La Sentinella rischia di fare la stessa fine? Beh sì. Diventare un prodotto editoriale efficiente, sostenibile, vendibile, ma spogliato del suo ruolo civile. Un giornale meno scomodo, meno conflittuale, meno disposto a disturbare equilibri politici e istituzionali, meno eporediese o per nulla eporediese. Basterà togliere “del Canavese” dal  nome della testata. E’ sarà un giornale che, anche grazie ai contributi dello Stato, dovrà stare in piedi nei bilanci prima ancora che nelle coscienze.

In un territorio dove le edicole chiudono, dove la carta fatica ad arrivare nei piccoli comuni, dove il rapporto con il lettore è fragile e personale, l’idea di un giornale pensato per “fare numeri” suona come una forzatura. Semplicemente perché qui i numeri non ci sono. E allora la soluzione non può che essere una: cambiare scala, cambiare natura, cambiare missione, fors'anche cambiare ubicazione della redazione, a Torino, evidentemente, più vicina al potere.

Insomma. Arriva Ladisa. Arriva con i suoi migliaia di dipendenti, i suoi milioni di pasti, i suoi contratti pubblici, la sua presenza già consolidata in Piemonte. Ma arriva anche con una visione che non ha alcun legame sentimentale con Ivrea. E per una città che ha sempre pensato alla Sentinella come a una parte di sé, questa non è solo una notizia editoriale. È una frattura. È la fine di un’illusione. È la consapevolezza che, da domani, il giornale non racconterà più Ivrea per Ivrea, ma Ivrea per ciò che serve a un progetto più grande.

Tutto chiaro? Macché. Prepariamoci allo scandalo eporediese. Quello prevedibile, rituale, quasi folkloristico. Quello di chi oggi alza le sopracciglia, domani storce il naso e dopodomani si dirà “indignato” perché il giornale non sarà più quello di una volta. Gli stessi che, da quando questa storia è cominciato a circolare, si sono girati dall’altra parte, hanno abbassato lo sguardo, hanno fatto finta di niente. Gli stessi che avrebbero potuto fare qualcosa e non l’hanno fatto.

Perché la verità, che a Ivrea si fa sempre fatica ad ammettere, è che questa partita l’hanno persa gli eporediesi, prima ancora di giocarla. Avrebbero potuto acquistarlo, quel giornale. Avrebbero potuto mettersi insieme. Avrebbero potuto provarci. Industriali, imprenditori, fondazioni, notabili, pezzi di borghesia che da decenni si fanno intervistare un giorno sì e l'altro pure con egocentrismo rasente al ridicolo, che pontificano sul destino della città e poi, quando c’è da mettere mano al portafoglio, spariscono. Tutti voltati dall’altra parte. Tutti muti. Tutti impegnati a spiegare perché “non era il momento”, “non conveniva”, “non stava in piedi”.

E non è finita lì. Perché anche sul fronte più banale, più elementare, quello della pubblicità, Ivrea ha dato il peggio di sé. Aziende che avrebbero potuto investire, sostenere, credere in un giornale del territorio e non l’hanno fatto. Inserzioni centellinate, spazi mai comprati, sostegno mai arrivato, salvo quelle schierate, AEG e SCS...

E allora, diciamolo una volta per tutte, senza ipocrisie: domani non si potrà pretendere da un pugliese ciò che gli eporediesi non hanno voluto fare per se stessi. Non si potrà chiedere a Ladisa di amare Ivrea più di quanto Ivrea abbia amato il suo giornale. Non si potrà invocare il senso di appartenenza, la memoria, la storia, quando per anni si è preferito il silenzio, l’indifferenza, la comoda attesa.

Perché i giornali non muoiono solo quando vengono venduti. A volte muoiono molto prima. Quando una comunità vuole solo approfittarne.

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