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12 Dicembre 2025 - 13:36
Il Canavese e le sue mappe segreganti: viaggio nel territorio dove la fragilità continua a diventare un posto letto
Nelle valli del Canavese, quando un struttura sanitaria riapre, nessuno si chiede mai davvero che cosa significhi. I comunicati parlano di “servizi che tornano sul territorio”, parole ordinate, tranquille, che passano tra gli atti amministrativi come un filo di fumo. Nuove ali, ampliamenti autorizzati, strutture modernizzate: tutto sembra scorrere dentro un flusso naturale, come se fosse inevitabile.
Ma la domanda che apre questa inchiesta è semplice e disturbante: perché un territorio che avrebbe fondi europei dedicati alla Vita Indipendente continua a investire quasi esclusivamente in posti letto?
Per rispondere, bisogna attraversare le carte. E, soprattutto, ciò che le carte non dicono.
C’è una formula che nel Canavese torna di continuo: ampliamento della capacità ricettiva. È un’espressione neutra, priva di corpo, che tradotta significa sempre la stessa cosa: un nuovo piano, una nuova ala, qualche decina di posti in più.
La Regione Piemonte dà a queste operazioni una cornice precisa. È la DGR 45-4248/2012 a stabilire che le RSA possono essere modificate, ampliate, riattivate, purché rispettino requisiti tecnici e sanitari. Una delibera silenziosa, tecnica, che di fatto apre una strada spianata a chiunque voglia aumentare il numero di letti.
Questa strada è la più semplice, la più veloce, la più amministrativamente praticabile.
Non richiede di dimostrare se esista un’alternativa domiciliare. Non richiede di valutare l’impatto sul diritto alla Vita Indipendente.
La legge regionale permette. Le istituzioni locali firmano. Le strutture crescono. E intorno a queste strutture cresce anche qualcos’altro: un ecosistema economico che beneficia dell’esistenza e dell’espansione della residenzialità, molto più di quanto benefici la comunità nel suo insieme.
In diverse zone del Canavese, come in molte aree d’Italia, le RSA non sono soltanto luoghi di cura: sono presidi economici, centri di attrazione di risorse pubbliche, attività che generano lavoro, indotto e servizi. È un modello legittimo, codificato, riconosciuto, ma che produce un effetto collaterale inequivocabile: trasforma la fragilità in un segmento di mercato.
Accanto alle strutture residenziali operano spesso realtà imprenditoriali plurime, che combinano attività diverse — immobiliari, assistenziali, ricettive, e talvolta anche legate ai servizi funerari. Non c’è nulla di illecito né di anomalo: è l’effetto naturale di un sistema che incentiva le economie di scala e integra verticalmente ciò che ruota attorno alla cura e alla fine della vita.
Ma questo fenomeno ha un valore documentale: è la prova empirica che la residenzialità, in Italia, non è soltanto un modello di welfare, ma un settore economico vero e proprio, un segmento che gode di flussi pubblici stabili, regolati e ripetuti.
Un settore che tende a espandersi perché l’espansione è, letteralmente, ciò che rende sostenibile la sua stessa struttura: più posti letto, più rette convenzionate, più servizi interni, più entrate. Un welfare che cresce perché conviene, non necessariamente perché risponde al diritto delle persone di vivere e morire dove desiderano.
E così, mentre la normativa internazionale chiede di spostare le risorse verso la libertà di scelta, in Canavese — e non solo — la macchina dell’assistenza funziona come qualsiasi altro comparto dell’economia territoriale: si sviluppa dove ci sono margini, si consolida dove ci sono rendite, si espande dove il mercato permette di farlo.
Non è una teoria. È un dato che emerge dalle carte: i flussi finanziari regolari verso le strutture, la mancanza di finanziamenti equivalenti per la vita indipendente, l’assenza di un’economia parallela basata sull’autonomia domiciliare. In questo squilibrio, le realtà che operano nella residenzialità e nei servizi collaterali diventano indicatori, non colpevoli: sono la fotografia di un welfare costruito intorno al rendimento, non al diritto.
Mentre il Canavese aggiunge camere, l’Italia — almeno sulla carta — dovrebbe sottrarle.
Dal 2009, con la Legge 18/2009, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è entrata nell’ordinamento italiano. Il suo articolo 19 è quasi un manifesto:
Le Linee Guida ONU del 2022 non lasciano margini interpretativi:
“Gli Stati non devono ampliare strutture segreganti né costruirne di nuove.”
E ancora:
“Ogni investimento pubblico nel modello istituzionale costituisce una violazione dei diritti umani.”
Nel 2025, il Comitato ONU lo ribadisce nelle sue Osservazioni Conclusive: l’Europa — e dunque gli Stati membri — continua a deviare dal percorso tracciato dall’articolo 19, come un fascio di luce che, incontrando un ostacolo, si rifrange nella direzione sbagliata e finisce per illuminare ancora le istituzioni invece dei servizi di comunità.
Se si guarda il Canavese attraverso questa lente, non appare come un’anomalia locale: è un frammento dello stesso spettro di deviazione, una porzione della stessa luce distorta.
È qui che il paradosso raggiunge il suo punto più luminoso e più oscuro insieme. Il Piemonte — e con esso il Canavese — dispone di una quantità di risorse che, se utilizzate secondo la loro destinazione originaria, potrebbero cambiare radicalmente la vita delle persone con disabilità. Sono risorse già stanziate, già programmate, già disponibili. Non manca il denaro. Manca la volontà di usarlo per la vita invece che per le mura.
Per capire l’entità di questo paradosso, bisogna guardare dentro i singoli capitoli di spesa.
Il Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+), regolato dal Regolamento (UE) 2021/1057, è il principale strumento europeo per l’inclusione sociale. Dentro questo fondo esiste una priorità dedicata proprio alla:
Non è un’aggiunta marginale: è una linea strategica. Significa che l’Europa mette soldi veri per permettere a una persona con disabilità di vivere nella propria casa, con sostegni adeguati, evitando l’ingresso in strutture.
Il Piemonte, come tutte le Regioni, ha ricevuto questi fondi. Ma nel Canavese non risultano iniziative paragonabili, per intensità o continuità, agli investimenti regolari destinati alle strutture.
Il Regolamento 2021/1060, detto “Regolamento sulle Disposizioni Comuni”, stabilisce una cosa fondamentale: qualsiasi euro europeo deve essere coerente con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Non è una raccomandazione. È un obbligo giuridico.
Se una Regione — o un territorio — usa fondi per rafforzare modelli segreganti, l’Unione Europea ha il potere di:
A livello teorico, dunque, il sistema dovrebbe essere blindato. Eppure, a livello pratico, nel Canavese la crescita delle strutture residenziali continua indisturbata, mentre non si vedono progetti equivalenti di vita indipendente sostenuti da fondi europei.
La norma è chiara. L’applicazione è un’altra storia.
Il Programma Regionale FSE+ Piemonte 2021–2027 dedica l’intera Priorità 3 all’inclusione sociale. Tra gli obiettivi espliciti ci sono:
Nelle intenzioni, è un programma che potrebbe ribaltare l’equilibrio attuale: da residenzialità dominante a comunità diffusa.
Ma scorrendo le iniziative attivate sul territorio canavesano, non emerge un flusso strutturale di progetti di vita indipendente. Non ci sono micro-équipe domiciliari finanziate in modo stabile. Non ci sono programmi intensivi di assistenza personale finanziati per anni. Non ci sono percorsi di uscita graduale dalle strutture.
Il piano dice “autonomia”, il territorio fa “posti letto”.
Il PNRR, nella sua Missione 5, prevede interventi diretti:
Il PNRR dispone di risorse enormi. È il piano che, più di tutti, avrebbe potuto avviare una vera rivoluzione territoriale.
Anche qui, però, mentre sulla carta i progetti esistono, nel Canavese non si osserva un impatto paragonabile a quello prodotto dalle strutture residenziali.
Gli edifici avanzano. I progetti di autonomia no.
Se si mettono in fila questi strumenti — FSE+, PR FSE+ regionale, PNRR, Regolamento 1060 — si ottiene un’immagine sconcertante:
Eppure, nella realtà:
È come se un’intera Regione avesse in mano il denaro per costruire ponti e invece lo usasse, anno dopo anno, per innalzare confini.
Ponti che porterebbero le persone a casa loro. Confini che le tengono segregate dentro un modello istituzionale.
Nel marzo 2025, a Ginevra, l’EDF denuncia apertamente che l’UE sta violando la CRPD. A maggio, la Commissione Europea risponde: tutti i fondi — compresi quelli regionali — devono essere conformi alla Convenzione ONU.
A marzo, lo stesso Comitato ONU pubblica osservazioni taglienti:
“Gli Stati devono interrompere immediatamente ogni investimento in istituzioni segreganti.”
Quando nel Canavese si inaugurano nuove ali o si riattivano strutture chiuse, tutto appare perfettamente legale nella logica regionale.
Ma nella logica internazionale, europeista, dei fondi FSE+, queste operazioni non sono neutre: sono indicatori di un modello in violazione.
Il punto centrale non è una questione di morale né di tradizione. Il problema non è neppure culturale, come se il territorio fosse incapace di immaginare alternative. La Vita Indipendente esiste da anni, sia in Piemonte che nel resto d’Italia: è una pratica riconosciuta, prevista dalle leggi, sostenuta da fondi nazionali ed europei, e dimostrata da decine di persone che vivono ogni giorno fuori dalle istituzioni grazie all’assistenza personale (insufficiente, ma coadiuvata dall'aiuto assistenziale dei caregiver).
Il nodo, allora, non è l’inesistenza del modello. È la sproporzione con cui viene trattato.
Il sistema sanitario regionale dispone di flussi finanziari certi, regolari, automatici, che possono alimentare senza esitazioni i costi dei posti letto. Quei fondi non si esauriscono mai: ogni anno vengono rifinanziati, ogni trimestre arrivano alle strutture, ogni posto occupato genera una voce di bilancio definita.
La Vita Indipendente, invece, è sostenuta prevalentemente dai Comuni — gli enti più fragili della macchina pubblica — e viene presentata come un lusso: un intervento da concedere “nei limiti delle risorse disponibili”, una possibilità da distribuire a pioggia, un finanziamento da frazionare fino all’osso.
Alle persone che la chiedono viene ripetuto sempre lo stesso ritornello: «I fondi non bastano. Bisogna accontentarsi.» Ma lo stesso problema non viene sollevato quando si tratta di finanziare una retta istituzionale: per quella, i soldi ci sono sempre, in ogni stagione, in ogni bilancio, in ogni assestamento.
La realtà è che la filiera economica della residenzialità è consolidata, stabile, organizzata attorno a un sistema di tariffe, convenzioni e flussi sanitari. La Vita Indipendente, pur esistendo, non gode dello stesso trattamento: è reale, ma trattata come fosse secondaria, opzionale, negoziabile.
E così, nel Canavese, la residenzialità continua a espandersi non perché il territorio la consideri superiore, ma perché è l’unica forma di assistenza a cui vengono garantiti fondi pieni, continui e certi. La Vita Indipendente, invece, esiste eccome — ma viene finanziata come se fosse un favore, non un diritto.
La domanda, allora, non è perché le RSA crescano. La domanda è perché la Vita Indipendente venga nutrita a briciole mentre le istituzioni ricevono pani e pesci.
I codici che non dicono nulla: anatomia dell’opacità contabile del c.i.s.s.38
C’è un elemento che distingue in modo netto il C.I.S.S.38 dagli altri consorzi del Canavese: l’impossibilità, sulla base dei documenti pubblici disponibili, di capire come vengano ripartite le diverse forme di assistenza. Nei mandati di pagamento del 2024, infatti, non compare alcuna voce contabile che identifichi in modo esplicito interventi di assistenza domiciliare, assistenza personale o percorsi di vita indipendente. Le somme destinate ai cosiddetti “soggetti tutelati” confluiscono invece in poche categorie molto ampie, utilizzate per una varietà di interventi eterogenei: Interventi assistenziali (U.1.04.02.02.000), Trasferimenti correnti a istituzioni sociali private (U.1.04.04.01.000) e Contratti di servizio pubblico (U.1.03.02.15.000).
Queste categorie, per come sono strutturate, non permettono di distinguere se l’intervento finanziato sia un ricovero in una struttura residenziale, un servizio territoriale, un contributo economico, un progetto educativo o un sostegno a domicilio. La tipologia dell’intervento non è mai dichiarata in modo univoco e non esiste un codice dedicato o un campo descrittivo che specifichi la natura dell’assistenza. Questo non significa che il C.I.S.S.38 non finanzi interventi domiciliari; significa qualcosa di più semplice e più grave: che i documenti contabili pubblicati non consentono di verificarlo.
La leggibilità, però, cambia quando si analizzano gli importi. Le somme associate alla dicitura “soggetto tutelato” — almeno per gli 83 casi in cui beneficiari e causali permettono una ricostruzione attendibile — risultano economicamente compatibili con le fasce tariffarie delle rette residenziali utilizzate in Piemonte per RSA, RAA e strutture assistenziali analoghe. In alcuni casi gli importi annuali superano ampiamente i 30.000 o 40.000 euro per persona, cifre che non trovano riscontro nei livelli di contribuzione normalmente previsti per l’assistenza domiciliare nella normativa regionale. È su questa base — contabile, non interpretativa — che la natura residenziale di una parte significativa della spesa diventa identificabile.
Ciò che resta invisibile, invece, è tutto il resto. Non è possibile stabilire, dai documenti disponibili, quante persone siano sostenute al domicilio, quante ricevano assistenza personale, quanti progetti di autonomia siano stati attivati, né quale parte della spesa complessiva sia destinata a misure non istituzionali. La domiciliarità non scompare nella pratica: scompare nella documentazione. E scompare perché la struttura dei codici adottati dal C.I.S.S.38 non prevede la distinzione tra i diversi livelli di intervento, rendendo impossibile ricostruire il mix tra misure residenziali e misure territoriali.
La conseguenza non è un giudizio politico, ma un fatto amministrativo: nella documentazione pubblica del C.I.S.S.38, l’unico tipo di intervento che è possibile riconoscere con un ragionevole margine di certezza è quello residenziale, poiché è l’unico che presenta importi tipici e ricorrenti riconducibili ai costi delle rette. Tutto ciò che riguarda la vita autonoma — assistenza personale, sostegni al domicilio, progetti individualizzati — resta aggregato dentro categorie contabili che non consentono alcuna verifica pubblica.
Questo non implica che il Consorzio non attivi interventi domiciliari; implica che non esiste un modo per ricostruirli attraverso i documenti pubblicati, e che questo deficit di trasparenza ha un effetto diretto sulla capacità di valutare il rispetto, a livello territoriale, degli obblighi derivanti dalla Convenzione ONU e dalle Linee guida sulla deistituzionalizzazione. In un sistema che dovrebbe distinguere in maniera chiara tra istituzionalizzazione e vita indipendente, la mancata distinzione nelle voci di spesa produce un effetto sistemico: rende perfettamente misurabile la residenzialità e, al tempo stesso, rende amministrativamente invisibile tutto ciò che non è istituzionale.
L’equilibrio sbagliato
Alla fine di questo viaggio, ciò che rimane non è una teoria astratta, ma un’equazione sbilenca, quasi crudele nella sua semplicità.
C’è un sistema che può arrivare a spendere migliaia di euro al mese per un posto letto, ma non riesce a destinare una cifra equivalente a garantire a una persona la possibilità più elementare: vivere nella propria casa con l’assistenza di cui ha bisogno. C’è un sistema che dispone di fondi europei pensati precisamente per superare l’istituzionalizzazione — FSE+, PNRR, PR FSE+ — eppure continua a investire nel modello opposto, come se la storia non avesse insegnato nulla.
E c’è un territorio che si muove in una cornice giuridica regionale perfettamente rispettata, ma che risulta concettualmente insostenibile secondo l’ONU, l’Unione Europea e tutti i più avanzati standard internazionali in materia di diritti umani.
La domanda finale, allora, non riguarda più le strutture. Riguarda il sistema che le rende inevitabili.
Perché nel Canavese — come in molte altre parti d’Italia — la residenzialità non è soltanto un’opzione assistenziale: è un settore economico. Un comparto che vive di tariffe, convenzioni, flussi continuativi, investimenti immobiliari, economie di scala. Un comparto che genera reddito e che, per propria natura, si espande dove c’è domanda e soprattutto dove ci sono fondi certi.
Il circuito economico che ruota intorno alla fragilità è visibile: imprese che gestiscono strutture vendendo addirittura servizi collaterali. Niente di illecito, tutto perfettamente normato; ma l’effetto è chiaro: la fragilità produce mercato, e il mercato, per definizione, prospera quando ha spazi per crescere.
E mentre il business si consolida, la logica che lo sostiene ricalca — in forme più pulite, più moderne — la vecchia logica manicomiale: la convinzione implicita che sia più semplice, più ordinato, più funzionale concentrare le persone fragili in spazi separati, anziché garantire loro la libertà e i sostegni necessari per vivere altrove. È una logica che la legge Basaglia aveva iniziato a scalfire, ma che sopravvive nei modelli di welfare che considerano la vita fuori dalle istituzioni come un’eccezione da negoziare, non come un diritto da garantire.
Così, mentre la normativa internazionale indica la strada della Vita Indipendente, il territorio scivola verso un modello che somiglia più a un manicomio diffuso, una rete di istituzioni moderne, certificabili, controllate, che però riproducono lo stesso principio di base: si vive dove il sistema decide che sia più conveniente, non dove si desidera.
La domanda, allora, non è più “perché ci sono tante strutture”. La domanda è:
Perché, avendo i fondi, le norme, i dati e i diritti dalla propria parte, il territorio continua a costruire posti letto invece di costruire libertà?
Fino a quando la risposta non arriverà, la geografia del Canavese — con le sue ali nuove, le sue risistemazioni, le sue inaugurazioni — continuerà a raccontare lo stesso paradosso: l’istituzione non è un residuo del passato. È un presente finanziato.
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