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Lo Stiletto di Clio
11 Dicembre 2025 - 17:49
Primo Levi nel suo ufficio alla Siva (anni Cinquanta del Novecento)
Correva l’anno 1955… Settant’anni or sono. L’Accati o Siva (Società Industriale Vernici Affini) iniziava l’attività produttiva in quel di Settimo Torinese. «La dove c’era l’erba, ora c’è...», canterà Adriano Celentano, dieci anni più tardi, riferendosi alla periferica via Cristoforo Gluck, a Milano, che porta il nome di un celebre compositore tedesco del Settecento. Altri tempi, altre persone e altri problemi. D’altronde, si sa, la storia è un fiume che scorre senza tregua, e il suo fluire crea e ricrea.
Le vicende della Siva – che allora aveva soltanto ventiquattro operai e dieci impiegati alle proprie dipendenze: pochi rispetto alle maestranze della Pirelli, dell’Oréal o della Farmitalia – appartengono a pieno titolo al passato cittadino. E sono rappresentative dei rapporti non sempre limpidi che gli imprenditori ebbero con Settimo e il suo territorio nel ventesimo secolo. È una storia emblematica: vale la pena di rispolverarla.
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Lo stabilimento Siva di Settimo Torinese negli annui Settanta del secolo scorso (in primo piano, a destra, la palazzina tuttora esistente)

La firma di Primo Levi in calce a un documento della Siva
Tutto cominciò il 7 giugno 1954 allorché l’impresa Federico Accati & Figli chiese di costruire uno stabilimento nei pressi dell’autostrada per Milano, secondo il progetto dell’ingegnere Angelo Calzone, autore di pregevoli opere fra cui la Casa di riposo «Mary Zegna» a Trivero (oggi Valdilana), non lontano da Biella. Con i suoi dodicimila abitanti, Settimo viveva una fase di forte dinamismo economico, dopo la stagnazione dell’immediato dopoguerra, anche se il vero boom – il famoso «miracolo» che proietterà l’Italia verso inattesi scenari di sviluppo – avrà inizio solo qualche anno più tardi. Settimo già era un centro industriale fra i più importanti dell’area torinese. Però non si parlava ancora di città-fabbrica o città-officina, due appellativi che s’imporranno negli anni Sessanta e Settanta.
L’Accati aveva la sede legale a Torino, in via Francesco Millio. Al fondo del corso Regina Margherita, in zona Pellerina, dove la città finiva in mezzo ai campi, disponeva di un capannone per la produzione di colori e vernici. A Settimo, invece, possedeva un terreno agricolo di 54 mila metri quadri, in un’area più che periferica, ma prossima all’autostrada Torino-Milano e alla strada Cebrosa. Sennonché il piano regolatore redatto dal professor Sandro Molli Boffa – uno studioso di fama, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Torino – destinava quel terreno all’attività agricola. Ovviamente l’azienda non era intenzionata a coltivarvi grano o mais. Infatti formulò istanza di costruzione. Prima, tuttavia, pensò bene di dare avvio ai lavori edili: a tre metri dall’autostrada, prese a innalzare un immobile da adibire all’attività produttiva. Quindi presentò formale opposizione verso il piano regolatore che non era stato ancora pubblicato.
L’Accati sostenne che il piano rispondeva «a criteri urbanistici astratti». Naturalmente non era vero. In Settimo, il professor Molli Boffa aveva individuato ben tredici zone a differente destinazione urbanistica: la «urbana centrale», la «industriale esistente», la «semirurale o dei lavandai» e così via. L’area dell’Accati rientrava nella zona agricola. Sostennero gli avvocati dell’impresa: «Il Comune di Settimo, […] per la sua particolare ubicazione e per la vicinanza con i centri industriali torinesi, da anni e anni è destinato ad accogliere nuovi impianti, di natura commerciale ed industriale, sfollati dalla grande città. Delimitare e comprimere l’espansione naturale di codesta attività equivarrebbe ad inaridire una delle più sicure e ricche sorgenti di vita confluenti nel Comune di Settimo».
Alla fine, l’Accati riuscì a spuntarla. Il 17 luglio 1954 il sindaco Luigi Raspini – autorizzato dalla propria giunta, allora di orientamento socialcomunista – firmò il permesso di costruzione edilizia. Si trattava, in pratica, di una deroga al piano regolatore prima della sua delibera di adozione! Nessuno ebbe alcunché da obiettare. Contestualmente il Comune inflisse un’ammenda di 50 mila lire (equivalenti a 800-900 euro di oggi o poco più) alla società per aver intrapreso i lavori senza la prescritta licenza.
La nuova fabbrica iniziò l’attività nel 1955. E subito, in municipio, cominciarono a piovere le lamentele dei lavandai e degli agricoltori per i liquami riversati nei fossi attorno allo stabilimento. Primo Levi (1919-1987) si occupava del laboratorio e dei processi produttivi. In veste di direttore tecnico e poi di direttore generale, organizzerà e controllerà tutte le attività della fabbrica. «Era un’abitudine – dirà – essere mattiniero. Alle otto dovevo essere là, a Settimo. […] Facevo il giro per i reparti, sentivo cosa era successo nella notte, perché si lavorava a turni anche notturni, poi guardavo la posta e rispondevo alla posta, ricevevo i rappresentanti. Mangiavo sul posto, c’era una mensa. Cose varie, grane di tutti i generi».
Levi sarà dipendente della Siva dal 1955 al 1975, sino alla pensione, e continuerà ancora a lavorarvi come consulente per un paio di anni. Per quanto concerne le politiche aziendali è da notare che la società costruirà, sul finire dello scorso secolo, una fabbrica a Tongling, nella provincia cinese di Anhui, ma poi la venderà al gruppo chimico tedesco AG Altana. Quest’ultimo trasferirà la produzione ad Ascoli Piceno, chiudendo definitivamente la fabbrica di Settimo. Fu l’ultima pagina di una storia industriale che non avrà un successivo capitolo.
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