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07 Dicembre 2025 - 00:02
Chernobyl, il colpo di drone che fa tremare l’Europa: l’arco non sigilla più il Reattore 4
La neve che si scioglie a chiazze sull’arcata d’acciaio di Chernobyl lascia intravedere una ferita scura, un taglio che non dovrebbe esserci. È il segno, largo quanto un piccolo appartamento, dell’impatto del drone che a metà febbraio ha perforato il rivestimento del Nuovo Confinamento Sicuro (NSC, New Safe Confinement), il grande “arco” che da quasi un decennio sovrasta ciò che resta del Reattore 4. Dopo l’ultima ispezione, gli esperti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) lo dicono senza esitazioni: la barriera non svolge più pienamente la sua funzione di confinamento. La struttura portante è stabile, i sistemi di monitoraggio continuano a funzionare e i livelli di radiazioni attorno al sito restano nella norma. Ma l’“ombrello” costruito per sigillare il punto più pericoloso d’Europa non è più impermeabile come prima. E il tempo, sommato alla guerra, gioca contro.

L’attacco del 14 febbraio 2025 ha colpito il tetto del NSC, incendiando gli strati isolanti tra la lamiera esterna e quella interna. Le prime valutazioni tecniche stimano un foro di circa sei metri di diametro, con un’area degradata che potrebbe superare i quarantacinque metri quadrati. Il calore ha acceso un incendio difficile da domare, nascosto tra gli strati del rivestimento, e le squadre di emergenza hanno impiegato settimane per spegnere i focolai annidati nei materiali isolanti. A inizio marzo la situazione è stata declassata da emergenza a condizione controllata. Le misurazioni in sito hanno confermato che i livelli di dose sono rimasti stabili, senza rilasci. Le autorità ucraine attribuiscono l’attacco alla Russia, che respinge ogni responsabilità. La guerra, però, non concede tregua alle infrastrutture critiche, e anche Chernobyl finisce nella lista dei bersagli indiretti.
L’ispezione della AIEA condotta la settimana precedente al 6 dicembre 2025 ha stabilito che la funzione di confinamento è compromessa. In termini tecnici, il margine di sicurezza contro infiltrazioni e dispersioni di particolato radioattivo non è più garantito come da progetto. La distinzione è fondamentale: non ci sono danni permanenti all’ossatura dell’arco, né guasti ai sistemi di sorveglianza. Non crolla nulla, insomma. Ma la “pelle” esterna, la barriera che tiene fuori acqua, neve e vento e che allo stesso tempo impedisce a eventuali polveri radioattive di uscire, è ferita e deve essere ripristinata integralmente. Gli operatori ucraini hanno già posizionato interventi temporanei per limitare l’ingresso di acqua e neve e stabilizzare le parti esposte, ma la stessa AIEA parla apertamente di un ripristino completo, con lavorazioni specialistiche in quota, sostituzione dei pannelli danneggiati e bonifica dell’isolante degradato.
Il gigante che oggi mostra questa vulnerabilità non è una costruzione qualsiasi. Il New Safe Confinement è la più grande struttura mobile terrestre mai costruita: un arco alto 108 metri, lungo 162 e con una campata di 257, oltre 36.000 tonnellate di acciaio, dotato di sistemi di gru telecomandati progettati per permettere un giorno lo smantellamento del vecchio sarcofago sovietico del 1986. L’arco è stato assemblato tra il 2010 e il 2016 accanto al reattore, poi spinto su binari nella posizione finale. La messa in servizio si è conclusa nel maggio 2019. Il costo dell’opera riconducibile alla sola arcata supera 1,5 miliardi di euro, all’interno di un programma più ampio, lo Shelter Implementation Plan, che nel complesso ha mobilitato oltre 2,1 miliardi di euro. A finanziare il progetto, sotto la regia della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD, European Bank for Reconstruction and Development), più di quaranta donatori tra cui Unione Europea, Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito, Giappone, Italia e altri partner internazionali.
Nella nota diffusa il 6 dicembre 2025, il direttore generale Rafael Mariano Grossi ha ribadito che la missione dell’Agenzia ha confermato la perdita della funzione di sicurezza primaria, incluso il confinamento, senza tuttavia riscontrare cedimenti strutturali. La diagnosi distingue ciò che regge da ciò che non sigilla: l’ossatura è solida, la chiusura stagna non più. Per questo la AIEA parla di un “ripristino essenziale”. Quanto alle radiazioni, le misurazioni effettuate dai tecnici ucraini e dagli esperti dell’Agenzia indicano livelli normali e stabili sia dentro sia fuori l’involucro. Nessun rilascio, nessuna anomalia. È una situazione che non cancella il rischio, ma lo circoscrive: la barriera oggi è meno efficace nel prevenire infiltrazioni d’acqua e ingressi d’aria che potrebbero, nel tempo, favorire la mobilitazione di polveri radioattive e accelerare la corrosione del vecchio sarcofago.
La priorità diventa dunque ripristinare la tenuta del tetto, richiudere il varco, sostituire gli strati di rivestimento e riparare gli isolanti danneggiati. Questo passaggio è solo il primo. Dopo l’impatto e l’incendio, i materiali devono essere analizzati con ispezioni non distruttive per verificare guarnizioni, giunti, travi secondarie e condotti. L’acqua è il nemico più insidioso, perché l’NSC è concepito per mantenere un microclima controllato: se la barriera perde integrità, quel microclima si altera. La partita dei finanziamenti resta aperta. La primavera scorsa alcune stime parlavano di “decine di milioni” di euro necessari per le riparazioni, a fronte di poco più di 25 milioni disponibili in un fondo internazionale di contingenza. I donatori storici dovranno decidere come colmare il divario. L’inverno complica ulteriormente il quadro: con il rischio di nuove precipitazioni e temperature rigide, gli esperti prevedono mesi di lavori per riportare l’arco agli standard originari.
Dire che il sistema ha perso la capacità di confinamento può spaventare, ma il significato tecnico è preciso. La funzione primaria dell’NSC non è solo contenere eventuali particolati radioattivi, ma soprattutto impedire che agenti esterni accelerino il degrado del vecchio sarcofago. La perdita della piena tenuta, dunque, non equivale a un’emergenza radiologica. È un rischio prospettico: senza un ripristino completo, la probabilità di infiltrazioni e dispersioni in condizioni estreme aumenta. Al momento le misurazioni non rilevano alcun rilascio. Il vero obiettivo, scrivono gli ispettori, è prevenire che una concatenazione di eventi — ulteriori attacchi, meteo avverso, guasti interni — apra una finestra per un potenziale rilascio futuro.
L’attacco di febbraio al sito di Chernobyl non arriva isolato. Fa parte di una più ampia campagna di colpi contro infrastrutture energetiche ucraine. Negli ultimi mesi droni e missili hanno colpito centrali elettriche, snodi ferroviari, siti industriali. In questo scenario, anche impianti nucleari non più operativi come Chernobyl diventano vulnerabili: non per il rischio di un incidente atomico classico, ma perché la guerra mette a dura prova manutenzione, accessi, alimentazione elettrica e integrità fisica delle strutture. L’AIEA mantiene una presenza continua in Ucraina dal 2022 proprio per monitorare costantemente tutti i siti nucleari, compresi quelli dismessi.
Il rivestimento dell’NSC è un sistema a doppia lamiera con isolante interposto. È un dettaglio tecnico importante: l’urto del drone ha innescato un incendio “sordo”, nascosto negli strati interni. Niente fiamme spettacolari, ma braci ostinate che riemergevano alimentate da microfessure. Solo a metà marzo le autorità hanno dichiarato estinti tutti i focolai. Un incendio del genere non comporta di per sé rilasci radiologici, ma sottopone i materiali a stress termico e meccanico e obbliga a un controllo minuzioso di cavidotti, giunti e superfici.
Sul piano diplomatico si apre ora una partita cruciale. La costruzione dell’NSC è stata possibile grazie a un impegno ventennale dei principali donatori internazionali coordinati dalla EBRD. La lista include Unione Europea, Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito, Giappone, Italia e, prima del conflitto, anche Russia. Oggi, di fronte a un danno valutato in decine di milioni di euro, i governi dovranno decidere rapidamente come finanziare un cantiere di riparazione complesso, in una zona d’esclusione e nel mezzo di una guerra. Il precedente c’è: la EBRD ha già approvato contributi straordinari in passato per evitare interruzioni ai progetti di sicurezza di Chernobyl.
La perdita della piena tenuta modifica anche il calendario del decommissioning del Reattore 4. Qualsiasi intervento che possa generare polveri, come tagli o rimozioni di componenti, richiede un sistema di confinamento integro e pienamente funzionante. Finché il tetto non verrà riparato e il rivestimento non tornerà a essere continuo, è probabile che le attività più invasive vengano posticipate. È una regola semplice: prima si ripristina la scatola, poi si torna ad aprirla.
Per i Paesi vicini, la domanda è una sola: c’è un rischio immediato? Le risposte finora sono rassicuranti. Le reti di monitoraggio, sia del sito sia nazionali, non mostrano variazioni dei livelli di radiazione. Non esistono segnali di rilascio in corso. Il rischio transfrontaliero entra in gioco solo in scenari estremi che oggi non si stanno verificando. L’urgenza del ripristino serve proprio a mantenere questa situazione: impedire che un insieme di eventi sfavorevoli possa un giorno provocare dispersioni. La cintura di sicurezza si è allentata, ma non si è spezzata. Va riagganciata prima che sia troppo tardi.
Sul piano politico, resta la questione delle responsabilità. Le autorità ucraine accusano la Russia dell’attacco del 14 febbraio. Mosca nega. L’AIEA, per mandato, non attribuisce responsabilità militari, ma si limita a registrare e valutare le conseguenze sulla sicurezza nucleare. È un equilibrio delicato, necessario per mantenere l’accesso ai siti e la presenza di tecnici internazionali anche in zone di guerra.
Nei prossimi mesi ci si può aspettare una richiesta formale di finanziamenti ai donatori storici, l’avvio di un cantiere d’emergenza per affrontare l’inverno e, con la primavera, l’avvio delle sostituzioni definitive dei pannelli danneggiati. I report dell’AIEA saranno più frequenti e probabilmente più dettagliati, con particolare attenzione a infiltrazioni e giunti. È plausibile che alcune attività di decommissioning vengano rallentate, almeno finché la funzione di barriera non sarà ristabilita completamente.
Insomma, la fotografia è chiara: l’arco di Chernobyl non sta crollando e non sta rilasciando radiazioni. Ma è vulnerabile nel suo punto più delicato, la pelle che separa il mondo esterno dal cuore del disastro del 26 aprile 1986. La richiesta della AIEA di un ripristino “completo e tempestivo” non è solo tecnica: è politica. Perché quell’arco non è soltanto un risultato dell’ingegneria, ma il simbolo di vent’anni di cooperazione internazionale e di un investimento da oltre un miliardo e mezzo di euro. Abbandonarlo al degrado sarebbe una sconfitta per l’Ucraina, ma anche per l’idea stessa che i rischi globali si controllano solo con rigore, trasparenza e responsabilità condivisa.
Fonti utilizzate: AIEA, ANS Nuclear News, Euronews, Reuters, The Guardian, Corriere della Sera, Al Jazeera, Ukrainska Pravda, Ukrinform, EBRD.
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