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Ancora morti di lavoro: 18 anni dopo la Thyssen non è cambiato nulla

Presidio davanti all’Ispettorato del Lavoro: sindacati e associazioni denunciano precarietà, appalti selvaggi e controlli insufficienti mentre in Italia muoiono quattro lavoratori al giorno

Ancora morti di lavoro: 18 anni dopo la Thyssen non è cambiato nulla

Ancora morti di lavoro: 18 anni dopo la Thyssen non è cambiato nulla

Si ritrovano ancora una volta in piazza, sotto le finestre dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro di via Arcivescovado, i sindacati di base e le realtà che da anni denunciano quello che definiscono “un massacro quotidiano”: le morti sul lavoro. Un presidio convocato per questa mattina, 6 dicembre, a quasi diciotto anni dalla tragedia della ThyssenKrupp, una ferita che il tempo non ha rimarginato e che continua a tornare come monito ogni volta che il bollettino degli infortuni racconta un Paese dove lavorare può ancora significare rischiare la vita.

Secondo i promotori del presidio, la situazione oggi è perfino peggiorata: precarietà dilagante, appalti a cascata in ogni settore — pubblico compreso — e un modello economico che, denunciano, continua a mettere il profitto davanti alla tutela delle persone. Con un dato che pesa come un macigno: “Ogni giorno in Italia muoiono quattro lavoratori, 1.276 solo nel 2025”. Numeri che, ricordano, non comprendono le centinaia di migliaia di infortuni e malattie professionali che ogni anno colpiscono chi lavora. Una scia silenziosa che attraversa fabbriche, cantieri, logistica, sanità, trasporti, servizi.

Nel mirino finiscono anche le categorie più fragili: gli anziani costretti a lavorare per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, i giovani schiacciati da contratti intermittenti o finiti sotto la retorica dell’alternanza scuola-lavoro, i migranti impiegati in condizioni spesso irregolari, le donne intrappolate in lavori sottopagati e instabili. “Muoiono come in guerra, dove gli esseri umani diventano elementi secondari”, si legge nel comunicato diffuso dai promotori.

Il presidio rivendica una lunga serie di interventi che, secondo le sigle presenti, rappresentano il minimo necessario per invertire una tendenza che appare ormai strutturale: una legislazione più severa sulla sicurezza, il riconoscimento del reato di omicidio sul lavoro per colpire le responsabilità dei datori e degli appaltatori, il rafforzamento del ruolo degli RLS, l’aumento degli organici dell’ispettorato del lavoro e delle Asl, contratti nazionali e aziendali che mettano finalmente la prevenzione al centro.

Particolarmente criticata anche la linea del governo Meloni sugli appalti e subappalti, accusata di voler “semplificare” le procedure a scapito delle tutele e di deresponsabilizzare i committenti. Sul fronte economico, la denuncia è altrettanto netta: salari bassi, frammentazione contrattuale e somministrazione di manodopera generano ricattabilità, e la ricattabilità — ricordano i sindacati — abbassa il margine di sicurezza e aumenta il rischio.

Al presidio, davanti all’INL, erano presenti Cub, Usb, Si Cobas, Le Radici del Sindacato–Alternativa Cgil, Medicina Democratica, Lavoro e Salute, Sinistra Anticapitalista, Partito Comunista dei Lavoratori, Rifondazione Comunista, Partito Comunista Italiano e Potere al Popolo, un fronte largo che da anni condivide battaglie su precarietà e sicurezza.

Una mobilitazione che, nelle intenzioni dei promotori, non vuole essere solo un rito di memoria ma un richiamo alla responsabilità collettiva: rimettere al centro la vita delle persone che lavorano, perché prevenire non può essere un costo da tagliare, ma un diritto che lo Stato e le imprese devono garantire senza eccezioni. Insomma, a diciotto anni dalla notte del 6 dicembre 2007, la domanda resta la stessa: quanto ancora il Paese è disposto a tollerare tutto questo?

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