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06 Dicembre 2025 - 06:50
Konecta chiude a Ivrea. Che ne sarà dei 700 lavoratori?
Il 5 dicembre 2025 la notizia che nessuno avrebbe voluto leggere è diventata ufficiale: Konecta chiude a Ivrea. Non una riorganizzazione, non una riduzione graduale, non un ridimensionamento: chiusura. Totale. Definitiva. Con trasferimento obbligatorio verso Torino entro il 2026. Una decisione che travolge circa 700 lavoratori eporediesi, parte di un totale di oltre 1.100 dipendenti piemontesi coinvolti insieme alla sede di Asti, anch’essa destinata a scomparire.
La verità? Il conto alla rovescia non è iniziato oggi ma il 10 giugno scorso, quando l’azienda aveva servito ai sindacati quello che oggi potremmo definire come il “penultimo colpo”: l’accordo di solidarietà difensiva. Un piano che coinvolgeva 11 sedi italiane, 2.748 lavoratori, e che a Ivrea pesava come un macigno sul quotidiano di circa 300 persone. Persone in carne e ossa, con bollette, figli, mutui, affitti, e che si trovavano nel mezzo di una crisi che non era solo economica ma culturale, storica, identitaria.
Il cuore del piano era semplice nella sua brutalità: una riduzione dell’orario di lavoro di tipo verticale, cioè intere giornate a casa, stipendi tagliati, settimane spezzate. Nove mesi di sacrifici, dal 16 giugno 2025 al 16 marzo 2026, con una riduzione media del 25%, ma punte individuali che arrivavano al 45%. Una sforbiciata che colpiva sempre gli stessi: lavoratori e lavoratrici del customer care, quel settore BPO/CRM che crea profitti altrove e precarietà qui.
E la storia, a Ivrea, la conoscono tutti a memoria. Ogni volta che una commessa nazionale svanisce — TIM, Generali, Fibercop — i primi a farne le spese sono loro, quelli che rispondono al telefono, quelli che garantiscono i servizi delle grandi aziende italiane. Basta un cambio di strategia, un appalto al ribasso, un outsourcing al di là delle Alpi, e da un giorno all’altro crollano i volumi, calano le ore, si azzerano le certezze. In questi cubicoli, tra cuffie e monitor, il futuro non è mai garantito più di qualche mese.

Intanto, nelle case di Ivrea, ci si interroga su cosa accadrà domani. Non è solo la busta paga che si assottiglia, è il logoramento psicologico: la sensazione che il proprio destino venga deciso altrove, da manager che operano tra Milano e Madrid, in sale riunioni lontane anni luce dalla realtà quotidiana di chi tiene in piedi l’operatività.
E qui si apre un capitolo amaro: la politica. Perché se esiste una città che ha già pagato un prezzo altissimo alla deindustrializzazione, quella città è Ivrea. Eppure dalle istituzioni non sono mai arrivati segnali forti, né prese di posizione capaci di incidere davvero.
Il paradosso è evidente. Un tempo, tra gli edifici razionali di via Jervis, si respirava innovazione. Ivrea era un simbolo del lavoro, della progettazione, dell’industria. Poi l’età dell’oro si è spenta. Una transizione complessa, ma accettata come l’unica possibile.
In questo contesto si inserisce la storia di Comdata, nata a Torino a fine anni ’80, cresciuta nell’outsourcing fino ad attirare nel 2015 il fondo americano Carlyle. Poi la fusione con Konecta, il gigante spagnolo. Prima una collaborazione, poi l’assorbimento, infine la cancellazione del marchio Comdata. Una globalizzazione feroce, che parla la lingua dell’efficienza e non quella dei lavoratori.
È in questo scenario che Ivrea si ritrova oggi: un presidio storico che si svuota, una sede che vive di riorganizzazioni continue, commesse che saltano, volumi che calano, decisioni che piovono dall’alto. Una storia già vista troppe volte, ma che brucia ogni volta come fosse la prima.
E allora la domanda è: che ne sarà della città? Che ne sarà dei lavoratori? Che ne sarà delle famiglie che per anni hanno tenuto insieme i pezzi di un sistema fragile?
Perché a Ivrea, ormai da troppo tempo, il lavoro non è più una certezza ma un rebus. È un problema di tutti: del territorio, della tenuta sociale, della dignità stessa della comunità.
Serve una reazione, non una rassegnazione. Serve che Ivrea, Torino, Roma battano un colpo, che chi vive del proprio lavoro non venga lasciato solo.
Bisogna pretendere che questa città conti ancora qualcosa. E che il lavoro, a Ivrea, non sia trattato come un dettaglio sacrificabile.
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