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05 Dicembre 2025 - 06:00
Christophe Gleizes
La sala del tribunale di Tizi Ouzou si pietrifica in un silenzio che pesa più della sentenza. “La corte conferma la decisione di primo grado”, annuncia il giudice poco dopo le 19 del 3 dicembre 2025, spegnendo in pochi secondi settimane di attese e di segnali che, fino a poche ore prima, sembravano indirizzare verso un esito diverso. Per Christophe Gleizes, 36 anni, reporter sportivo francese, arrivano altri sette anni di carcere per “apologia del terrorismo”. A Algeri, tra diplomatici e osservatori, si era respirato un cauto ottimismo: la recente liberazione dello scrittore Boualem Sansal, il clima di apparente disgelo tra Francia e Algeria, le ricostruzioni che trapelavano da fonti istituzionali. Tutto sembrava suggerire una schiarita. Invece il verdetto d’appello non solo conferma la pena, ma ne amplifica la portata simbolica: un processo a un giornalista, inserito in una relazione bilaterale già minata da sospetti e reciproche diffidenze.
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Boualem Sansal
Secondo la procura, Gleizes avrebbe “glorificato il terrorismo” per aver avuto, anni prima, contatti con un dirigente calcistico accusato di legami con il Mouvement pour l’autodétermination de la Kabylie (MAK, Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia), inserito dal Haut Conseil de sécurité (Alto Consiglio di Sicurezza) nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 2021. La difesa ribalta l’intera impostazione: quei contatti erano parte del suo lavoro di reporter impegnato in un’inchiesta sulla JS Kabylie (JSK), la squadra simbolo della regione amazigh, e nulla avevano a che vedere con propaganda o proselitismo. L’unica irregolarità riconosciuta dal giornalista – e più volte ripetuta in aula – è l’ingresso in Algeria con un visto turistico invece che con un accredito stampa: un errore amministrativo, non un reato politico.
Il giorno dell’appello, gli avvocati del giornalista, l’algerino Amirouche Bakouri e il francese Emmanuel Daoud, parlano per quasi due ore. Daoud lo fa in francese, scelta insolita nelle aule algerine, con un intervento che punta a demolire l’impianto accusatorio punto per punto. Gleizes prende la parola solo per riconoscere “molti errori giornalistici” e per invocare clemenza, ricordando la famiglia che lo aspetta. Ma la corte rimane impermeabile. La Francia, ufficialmente “rammaricata”, ribadisce il valore della libertà di stampa e ricorda che il reporter è oggi l’unico cittadino francese detenuto al mondo per motivi legati all’attività giornalistica.
Ma chi è Christophe Gleizes? Un freelance stimato, collaboratore di So Foot e Society (entrambe del gruppo So Press), specializzato in storie di sport e reportage profondi sul calcio come fenomeno sociale. Nel maggio 2024 vola in Cabilia per documentare la realtà della JSK, il club più titolato d’Algeria e simbolo dell’identità amazigh. La sua inchiesta si interrompe bruscamente il 28 maggio, con l’arresto a Tizi Ouzou. Seguiranno tredici mesi di controllo giudiziario, quindi la condanna di primo grado del 29 giugno 2025 e, ora, la conferma in appello. Le accuse sono due: “apologia del terrorismo” e “possesso di pubblicazioni a scopo di propaganda lesiva dell’interesse nazionale”. Per Reporters sans frontières (RSF, Reporter Senza Frontiere), si tratta dell’ennesima applicazione “estensiva e strumentale” della normativa antiterrorismo.
Per capire come un’inchiesta sportiva possa trasformarsi in un processo per terrorismo bisogna guardare alla storia recente della Cabilia, territorio da decenni al centro di rivendicazioni culturali e politiche, spesso percepite dallo Stato centrale come minaccia. La decisione del 2021 di classificare il MAK come “organizzazione terroristica” si inserisce in un contesto di riforme penali molto restrittive, denunciate da esperti ONU e organizzazioni per i diritti umani per aver dilatato la definizione di terrorismo fino a includere forme di dissenso pacifico e condotte non violente. È in questo scenario che un’intervista o un contatto giornalistico possono essere reinterpretati come indizi di “apologia”.
Il caso di Boualem Sansal, liberato a fine novembre 2025 grazie a una grazia presidenziale concessa da Abdelmadjid Tebboune, aveva alimentato speranze di distensione. Sansal, 76 anni, scrittore franco-algerino malato di cancro, era stato incarcerato un anno prima con accuse contestate dalla comunità internazionale. La sua liberazione era stata letta a Parigi come un gesto politico significativo, il segnale di una trattativa possibile. Eppure, il caso Gleizes ha dimostrato che il margine di manovra è più stretto di quanto immaginato. L’aria è cambiata rapidamente. E per capirne le ragioni occorre guardare oltre l’aula del tribunale: ai rapporti tra Francia e Algeria, tornati in una fase di gelo dopo che Parigi ha riconosciuto, nel 2024, la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, rafforzandola con visite ufficiali nel 2025. Una svolta che Algeri, sostenitrice del Fronte Polisario, considera una rottura profonda del fragile equilibrio diplomatico. A complicare il quadro ci sono anche le tensioni sui rimpatri dei migranti irregolari. In questo clima, un detenuto eccellente può trasformarsi in una moneta di scambio.
La JS Kabylie, club di cui Gleizes stava raccontando la storia, non è soltanto una squadra. È un simbolo culturale. La “Vecchia Signora” del calcio algerino incarna l’identità amazigh, le lotte per il riconoscimento linguistico e la memoria di una regione spesso marginalizzata dalle istituzioni centrali. Le autorità conoscono bene il ruolo politico che negli anni hanno assunto alcuni ex dirigenti societari vicini al MAK. È possibile che appunti, contatti o pubblicazioni raccolte dal giornalista siano state interpretate come segnali di appartenenza politica. Di fronte a questa lettura, la difesa ha insistito su un principio basilare del mestiere: documentare non significa aderire, intervistare non equivale a “glorificare”.
Il nodo centrale rimane la legislazione antiterrorismo algerina, in particolare l’articolo 87 bis del codice penale, che negli ultimi anni è stato esteso fino a comprendere reati d’opinione, “atti sovversivi” e “offese ai simboli della Rivoluzione”. Amnesty International e il Committee to Protect Journalists (CPJ) parlano apertamente di “uso politico del diritto penale” e denunciano arresti e processi lampo, spesso privi di reali garanzie difensive. L’arresto, il 27 novembre 2025, del giornalista veterano Saad Bouakba per presunta diffamazione dei simboli della Rivoluzione, ha ulteriormente confermato un trend repressivo che non sembra destinato a invertirsi.
Nel fascicolo di Gleizes, l’unico elemento non contestato è l’ingresso nel Paese con un visto turistico. La difesa lo definisce un “errore amministrativo”, del tutto sproporzionato rispetto alla gravità delle accuse. Il resto del dossier, secondo RSF, non resisterebbe a un esame indipendente. I contatti con un ex dirigente JSK ritenuto vicino al MAK e il possesso di alcune pubblicazioni non basterebbero a fondare un’accusa di terrorismo. In aula, Gleizes ha ammesso sbavature nel metodo giornalistico, ma ha ribadito di non aver mai sostenuto alcuna organizzazione politica.
A Parigi, la condanna arriva come uno schiaffo. Il governo, che dopo il “caso Sansal” aveva sostenuto l’efficacia della diplomazia discreta, si ritrova ora spiazzato. Il ministero degli Esteri francese chiede la liberazione del reporter e ribadisce l’attaccamento alla libertà di stampa, ma senza una grazia presidenziale di Tebboune la prospettiva è quella di una detenzione lunga e ingiusta.
Da parte algerina, la percezione è opposta: la posizione francese sul Sahara Occidentale ha inciso profondamente sul clima politico e mediatico interno. In questo contesto, una liberazione immediata e presentata come concessione a Parigi potrebbe essere interpretata come un cedimento. Il processo diventa così, suo malgrado, uno strumento di politica interna e internazionale.
Il caso Gleizes non è un episodio isolato, ma rientra in un quadro più generale. Nel 2025, secondo i report delle principali organizzazioni, giornalisti e attivisti algerini sono stati spesso incriminati per “false notizie”, “offesa ai simboli” o “apologia”, anche per semplici post sui social. Amnesty documenta condanne fino a cinque anni per opinioni espresse online. La sensazione è quella di un ecosistema informativo sotto pressione, dove il diritto penale viene utilizzato come strumento di deterrenza.
Ora, per Gleizes, le strade formali sono due: un ricorso in Cassazione – che però in Algeria esamina solo l’applicazione della legge, non i fatti – o una grazia presidenziale, considerata da fonti giudiziarie la via più rapida ma anche la più politicamente delicata. Nel frattempo, la mobilitazione cresce. RSF ha lanciato la campagna FreeGleizes, con petizioni, affissioni pubbliche e il sostegno delle principali scuole di giornalismo francesi. Anche il mondo dello sport si è mosso: tifoserie, ex calciatori, società legate alla JSK hanno diffuso appelli e prese di posizione.
Per Emmanuel Macron, impegnato a ricostruire rapporti con i partner nordafricani, la vicenda è un test complesso: difendere un cittadino e un principio senza compromettere gli equilibri diplomatici. Per Abdelmadjid Tebboune, è l’occasione di mostrare determinazione contro ciò che considera movimenti eversivi, bilanciando però la pressione internazionale e l’interesse strategico di una Francia che resta partner economico e comunità diasporica influente. In mezzo, c’è un giornalista che ha provato a raccontare un Paese attraverso il calcio e che ora si ritrova al centro di un conflitto in cui cronaca, identità e geopolitica si sovrappongono.
Questa vicenda riguarda anche noi, perché tocca tre piani fondamentali. Il primo è quello dello Stato di diritto: quando la definizione di terrorismo si allarga fino a inglobare la critica pacifica, la giustizia diventa strumento di governo e la libertà di informazione si restringe. Il secondo riguarda il ruolo del giornalismo di frontiera, che impone regole rigorose e rischi crescenti, soprattutto in Paesi dove la legge può trasformarsi in una trappola. Il terzo è il terreno della diplomazia dei principi: l’Europa dichiara di voler difendere la libertà di stampa, ma la coerenza si misura nei casi concreti, non nei comunicati.
Nelle prossime settimane, la chiave potrebbe trovarsi altrove, lontano dai tribunali. Se ci sarà una grazia, nascerà da un compromesso politico. Se non arriverà, Gleizes si troverà a scontare una pena severa per fatti che la sua difesa, e molte ONG, considerano non criminali. La sua cella a Tizi Ouzou resta oggi la metafora più potente di una frattura che attraversa il Mediterraneo: quella tra sicurezza e libertà, tra ragion di Stato e diritto di sapere, tra diplomazia e dignità individuale. E racconta anche il paradosso di un calcio – quello della JSK – che per decenni è stato ponte tra identità diverse e che oggi si ritrova, suo malgrado, al centro di un conflitto che va ben oltre lo sport.
Fonti utilizzate:
Le Monde, Le Figaro, Libération, France 24, RSF – Reporters Sans Frontières, Amnesty International, CPJ – Committee to Protect Journalists, documenti pubblici della giustizia algerina, dispacci del Ministero degli Esteri francese.
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