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03 Dicembre 2025 - 12:17
Otto orti sociali liberi a Caselle Torinese: perché? Il Comune rilancia il bando, ma...
La decisione del Comune di Caselle Torinese di riaprire le assegnazioni degli orti sociali di via Malanghéro arriva in un dicembre che somiglia più a un bilancio politico che a un semplice adempimento amministrativo. Otto lotti su dodici sono rimasti senza coltivatore, un numero che racconta più di tante relazioni: racconta rinunce, cambi di vita, spazi che si liberano e un’amministrazione che prova a rimetterli in circolo. La determina firmata dal dirigente dell’Area Tecnica, Matteo Tricarico, mette ordine nella materia e ufficializza ciò che già si intuiva da tempo: è necessario riaprire il bando, aggiornare l’elenco degli assegnatari e ripartire dalle regole fissate dal regolamento comunale del 2008, ancora oggi la bussola per chi vuole una zolla di terra pubblica da coltivare.
Il cuore dell’operazione – e qui l’atto amministrativo lo dice con una chiarezza rara – sta in un aggiornamento richiesto dal settore Opere Pubbliche: verificare chi, tra i vecchi assegnatari, abbia deciso di rinunciare e quanti orti risultino effettivamente disponibili. L’esito è netto: otto orti liberi, più della metà dell’intero spazio. Un dato che apre una domanda che la determina non si pone ma che il lettore, e il cittadino, inevitabilmente si fanno: perché così tante rinunce? Disinteresse? Difficoltà logistiche? Oppure semplicemente quella fisiologica rotazione che, in qualunque comunità, accompagna i progetti che vivono sul margine tra impegno personale e beneficio collettivo? L’atto non indaga, non potrebbe farlo, ma la questione resta sul tavolo.
Accanto all’aspetto logistico e amministrativo, la determina ricuce il contesto normativo: richiama il DUP, il bilancio, il PIAO, le delibere di Giunta e Consiglio, fino al decreto del sindaco che assegna le funzioni dirigenziali. È un percorso che, al lettore poco avvezzo alle carte pubbliche, può sembrare un labirinto. Ma è proprio in quel labirinto che si misura la distanza fra la retorica della “semplicità amministrativa” e la realtà quotidiana degli enti locali, intrappolati in un sistema che chiede coerenza, copertura, riferimenti continui a norme, piani, delibere. La verità è che per aprire otto orti serve un mosaico di atti che nulla hanno a che vedere con l’insalata o con le zucchine: servono i fondamenti contabili, serve la cornice regolamentare, serve che ogni ingranaggio sia allineato.
La parte più politica del provvedimento, pur senza mai dichiararsi tale, emerge nelle motivazioni: gli orti sociali non sono un passatempo comunale ma un pezzo di welfare urbano. Un piccolo pezzo, certo, ma che produce effetti reali. Sono spazi di socialità lenta, luoghi in cui si intrecciano pensionati, famiglie, appassionati di orticoltura, cittadini che non cercano contributi ma semplicemente la possibilità di coltivare un fazzoletto di terra. Per questo la determina insiste sulla pubblicazione in Amministrazione Trasparente e sulla comunicazione alla Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici: la normativa parla di “vantaggi economici”, ma più che altro si tratta di un riconoscimento della natura pubblica del bene e della necessità che ogni assegnazione sia tracciabile, controllabile, leggibile da chiunque.
Il ruolo del responsabile del procedimento, il geom. Ernestino Rognone, è quasi una figura-ponte: da un lato la tecnica, dall’altro la gestione pratica di un patrimonio che non è fatto di metri cubi di cemento ma di metri quadrati di terra. Ed è significativo che l’atto ribadisca la necessità del parere di regolarità tecnica, come a voler sottolineare che anche la semplicità ha bisogno di essere certificata. L’orto sociale non sfugge alla liturgia amministrativa: ogni concessione è un atto, ogni atto è un tassello, ogni tassello deve essere corretto.
Eppure c’è una contraddizione che corre sotterranea: gli orti vengono trattati come se fossero appalti. La legge lo impone, certo; gli obblighi di trasparenza non permettono interpretazioni leggere. Ma il risultato è questa distanza curiosa tra la dimensione umana – chi coltiverà cosa, chi incontrerà chi, chi userà quello spazio – e la dimensione burocratica, che parla la lingua dei decreti legislativi e delle delibere di bilancio. È il paradosso degli enti locali contemporanei: realtà minuscole imbrigliate in normative pensate per strutture enormi.
Questa determina, tuttavia, ha un merito: riattiva un bene pubblico e lo rimette nelle mani dei cittadini. Un gesto piccolo ma concreto, in un tempo politico in cui la concretezza si disperde spesso in dichiarazioni e promesse. Le amministrazioni locali, quando funzionano, lo fanno così: attraverso atti che non faranno notizia nazionale ma che incidono sulla vita quotidiana dei residenti.
Resta una domanda finale, che questa volta non riguarda il passato ma il futuro: chi occuperà quegli otto orti? Quali storie, quali mani, quali età? L’atto amministrativo chiude con una firma digitale, ma la storia reale si aprirà il giorno in cui i nuovi assegnatari entreranno negli spazi di via Malanghéro con una zappa, un secchio, un’idea. E allora sì, la politica locale avrà fatto il suo mestiere: trasformare un documento in un gesto, un regolamento in una comunità che cresce, un bando in un pezzo di città che torna vivo.
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