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Prosecco, il retrogusto che non ti aspetti: “inquinanti eterni” nel calice. Cosa dicono i dati, cosa cambia per i consumatori, cosa devono fare produttori e politica

Nel test su 15 bottiglie di Prosecco tutte contenevano residui di pesticidi e livelli elevati di TFA, il “metabolita invisibile” dei PFAS. Tra norme che si irrigidiscono, studi europei che parlano di contaminazioni crescenti e un territorio sotto pressione, ecco che cosa c’è davvero dentro quel perlage brillante — e come si può invertire la rotta senza demonizzare un’eccellenza

Prosecco, il retrogusto che non ti aspetti: “inquinanti eterni” nel calice. Cosa dicono i dati, cosa cambia per i consumatori, cosa devono fare produttori e politica

Prosecco, il retrogusto che non ti aspetti: “inquinanti eterni” nel calice. Cosa dicono i dati, cosa cambia per i consumatori, cosa devono fare produttori e politica

Una stanza bianca, un cromatografo acceso, il ritmo costante della pompa. Non è una cantina, è un laboratorio: qui 15 bottiglie di Prosecco vengono aperte una dopo l’altra, senza toni da sommellerie, senza ruote degli aromi. Solo numeri. E quei numeri raccontano che ogni campione contiene residui di pesticidi e, soprattutto, TFA, l’acido trifluoroacetico, un “frammento” dei PFAS, le sostanze “eterne” che attraversano acqua, suoli e piante senza degradarsi. Le concentrazioni oscillano sulle decine di migliaia di nanogrammi per litro, valori alti rispetto ai riferimenti usati dall’inchiesta: nessuna bottiglia merita un giudizio “buono”, solo due arrivano alla sufficienza. Un risultato che non chiama in causa solo i produttori, ma l’intero modello agricolo che regge il sistema del vino italiano.

A condurre il test è stato il mensile Il Salvagente, che ha fatto analizzare 15 marchi di Prosecco: tutti positivi a residui di pesticidi, fino a dieci principi attivi nello stesso campione, e tutti con presenza di TFA. Poiché nel vino non esiste un limite normativo per PFAS o TFA, la comparazione si appoggia ai parametri dell’acqua potabile: la Direttiva UE 2020/2184 fissa 100 ng/l per la “somma di PFAS” e 500 ng/l per il “PFAS totale” dal 12 gennaio 2026. Il TFA non figura nella lista dei 20 PFAS della direttiva; per stimarne l’impatto, l’inchiesta usa il valore indicato dall’Italia per le acque potabili dal 2027, 10.000 ng/l. Molti campioni lo superano. La pagella parla da sola: nessun “buono”, due “medi”, otto “mediocri”, cinque “scarsi”. La somma di residui e il peso del TFA rivelano una dipendenza sistemica da agrofarmaci in un territorio ad altissima intensità colturale.

Il TFA, molecola “ultra-short chain” della famiglia PFAS, nasce dalla degradazione di sostanze fluorurate: pesticidi, farmaci, refrigeranti come l’HFO-1234yf. La sua persistenza e mobilità lo rendono una presenza ostinata nelle acque, e i trattamenti convenzionali non lo rimuovono con efficacia. In Germania, il centro di ricerca TZW indica un valore guida tossicologico di 60 μg/l, ma avverte che i dati pubblicati nel 2024 potrebbero portare a limiti più severi. Intanto il dossier dell’ECHA valuta una possibile classificazione del TFA come sostanza con potenziale tossicità riproduttiva (categoria 1B), oltre che PMT/vPvM. È lo stesso quadro in cui procede la restrizione “orizzontale” dei PFAS sotto REACH, con un iter scientifico che dovrebbe chiudersi entro il 2026.

L’indagine sul Prosecco non è un caso isolato. Nel 2025 PAN Europe e una rete di ONG hanno pubblicato Message from the Bottle, che fotografa una presenza diffusa di TFA nei vini europei: 49 bottiglie da dieci Paesi, nessun TFA prima del 1988, crescita dopo il 2010, medie tra 110 e 122 μg/l, picchi oltre 300 μg/l. Anche vini italiani — compresi alcuni spumanti — mostrano valori fra 43 e 120 μg/l. Non serve trovare residui di pesticidi per rilevare TFA: la molecola entra per via ambientale, attraverso acqua, suolo, piogge, irrigazione. E non riguarda solo il vino. Nel Veneto, ARPAV monitora PFAS da oltre dieci anni, segnalando criticità in corsi d'acqua di pianura e persistenze di composti come PFOS e PFOA. Il quadro per il TFA non è ancora omogeneo, ma la pressione chimica sul sistema idrico è evidente.

Sul fronte normativo, la Direttiva europea fissa due parametri per le acque potabili: 100 ng/l per la “somma di 20 PFAS” e 500 ng/l per il “PFAS totale”, recepiti dall’Italia con il D.Lgs. 18/2023 e poi integrati dal D.Lgs. 102/2025. Il TFA è fuori da quella lista e l’Italia introduce un limite autonomo, 10 μg/l, dal 13 gennaio 2027. Una soglia che diventa riferimento di fatto anche per le inchieste di prodotto, pur senza un valore legale per il vino. Intanto, ECHA aggiorna nel 2025 il dossier PFAS, le aziende chimiche preparano dismissioni e phase-out e la Commissione avvia linee guida per il monitoraggio nelle acque.

Sul territorio del Conegliano-Valdobbiadene, Patrimonio UNESCO, le colline sono un mosaico di filari, pendenze e pressioni fitosanitarie. L’uso di agrofarmaci, anche entro i limiti legali, espone il sistema a un carico chimico che si somma alla nuvola ambientale dei PFAS. Il test — residui in tutti i campioni, fino a dieci sostanze — non parla di illegalità: dice però che la dipendenza dai trattamenti è strutturale e che il TFA, arrivato per vie ambientali o agricole, non è un incidente.

Sul versante salute, due verità devono coesistere. I residui di pesticidi del test restano sotto i limiti di legge, e questo riduce il rischio acuto per il consumatore. Ma la letteratura sui PFAS documenta effetti avversi a basse dosi e capacità di accumulo nel tempo. Per la “somma di quattro PFAS”, EFSA ha fissato nel 2020 un TWI di 4,4 ng/kg peso corporeo a settimana, un invito alla cautela nell’esposizione cumulativa. Il singolo calice non fa la differenza; a preoccupare gli esperti è la somma delle piccole esposizioni quotidiane, soprattutto nei soggetti vulnerabili. È per questo che il focus si sposta dalla “tollerabilità” del prodotto alla riduzione a monte delle emissioni.

Le aziende, in parte, reagiscono contestando l’attribuzione del TFA ai pesticidi, sottolineando le molte fonti possibili: refrigeranti, farmaci, emissioni atmosferiche. Un’obiezione fondata: il TFA è una SMS, Substance from Multiple Sources. Per distinguere i contributi servono tracciabilità, monitoraggi integrati su aria, piogge, suoli, acque, vegetazione, e metodi analitici armonizzati, oggi già in sviluppo nelle linee guida europee. Senza questo quadro, ogni discussione resta monca.

Cosa fare subito lo dicono gli indizi di campo: più biologico vero, meno input fluorurati, vitigni resistenti, agronomia di precisione, irrigazione ridotta dove possibile. Le cantine non possono rimuovere TFA come un impianto idrico, quindi la difesa si gioca “a monte”. Consorzi e Regione Veneto hanno strumenti per fissare obiettivi territoriali, mappare aree sensibili, premiare chi abbassa il carico chimico, potenziare il monitoraggio ARPAV. La trasparenza verso i consumatori — etichette dinamiche, report ambientali — è una strategia di fiducia, non un orpello.

La politica, invece, deve accelerare: standard per TFA nelle matrici alimentari, monitoraggi ufficiali su vino e prodotti vegetali, pressione in sede europea per una restrizione ambiziosa dei PFAS, anticipazione degli obiettivi italiani su PFAS e TFA nelle acque, riforma dell’assistenza tecnica in viticoltura. Le differenze fra limiti, riferimenti e valori guida — ng/l, μg/l, liste di acronimi — riflettono la scienza in movimento: non c’è un consenso definitivo, gli standard cambiano man mano che emergono nuovi dati.

Ecco perché l’inchiesta sul Prosecco è utile, anche se scomoda. Non dice che il Prosecco sia “pericoloso”, dice che le sostanze persistenti — agricole e industriali — stanno entrando nel perimetro delle eccellenze italiane. Difenderle significa affrontare il capitolo PFAS/TFA con strumenti nuovi, dalla vigna alla politica europea. In un mercato in cui i vini italiani reggono la competizione globale sul rapporto qualità/prezzo, aggiungere il fattore della trasparenza ambientale può diventare un vantaggio strategico. Dagli Stati Uniti in giù, l’attenzione per la salubrità cresce. Chi dimostrerà riduzioni di input e residui conquisterà fiducia. Ma il tempo stringe: mentre il vino sosta in autoclave, i dossier normativi corrono e i PFAS cambiano le regole del gioco.

Alla domanda più frequente — “Bere un calice di Prosecco è pericoloso?” — la risposta resta no: il singolo bicchiere non crea un rischio acuto. Ma la vera sfida è la riduzione dell’esposizione cumulativa, ed è qui che servono norme, dati e responsabilità condivise. Non esistendo limiti per PFAS e TFA nel vino, il riferimento all’acqua è un criterio comparativo, non una condanna. E le responsabilità, come sempre, sono diffuse. Il TFA ha molte fonti, anche extra agricole; ma il settore viticolo può fare molto, documentando progressi reali. Il Prosecco resta un patrimonio economico e culturale, ma l’era dei PFAS impone una svolta: meno dipendenza da molecole persistenti, più conoscenza del territorio, più scelte politiche coraggiose. L’inchiesta è una spia accesa sul cruscotto: ignorarla sarebbe un errore strategico, prima ancora che ambientale.

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