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02 Dicembre 2025 - 07:00
il sindaco Lo Russo
Alla fine, il copione è sempre lo stesso: succede qualcosa di grave – in questo caso l’irruzione alla redazione de La Stampa – e invece di chiedersi perché una parte di città sia arrivata a questo livello di tensione, la politica si mette in fila per litigare su Askatasuna. È il nuovo sport nazionale: c’è un disagio profondo? Si risponde con un comunicato indignato e una bella rissa in Sala Rossa sull’immobile di corso Regina Margherita 47.
Il resto – precarietà, affitti, guerra, rabbia sociale, fiducia sotto zero nelle istituzioni – può tranquillamente aspettare.
In Consiglio comunale Stefano Lo Russo sceglie il registro istituzionale: condanna l’assalto al giornale, ribadisce la solidarietà ai cronisti, alza il tono sulla democrazia. Fin qui, doveroso. Poi parte il pezzo sul patto di collaborazione civica: lo difende come un percorso «pubblico e trasparente», un modo per riportare legalità in un immobile occupato da quasi trent’anni. Ricorda l’elenco infinito di governi, ministri, prefetti e questori passati davanti a quello stabile senza mai risolvere nulla e restituisce le accuse al mittente: le destre oggi gridano allo scandalo, ma quando avevano in mano tutte le leve non hanno fatto un bel niente.
Politicamente efficace? Forse. Utile a capire qualcosa di più del malessere che attraversa Torino? Per niente.
Perché mentre Lo Russo snocciola numeri sugli organici ridotti delle forze di polizia e richiama Matteo Piantedosi e il governo Meloni alle loro responsabilità, il centrodestra si lancia nel suo copione preferito: il sindaco “struzzo” che infila la testa sotto la sabbia, l’immobile “regalato ai violenti”, la richiesta di stracciare il patto, sequestrare tutto, chiudere, sgomberare, silenziare. O revoca il patto o deve dimettersi: versione breve del tormentone.
Nel frattempo, qualcosa sfugge completamente ai protagonisti di questa recita: Torino non sta discutendo solo di un edificio occupato. Sta esplodendo un disagio che parte dall’università, attraversa i collettivi, arriva nei quartieri dove la sicurezza è percepita come un lusso per pochi, mentre i servizi arretrano e il lavoro stabile è un miraggio. E la risposta della politica qual è? Trasformare Askatasuna in un totem. O lo si difende a prescindere, o lo si demonizza a prescindere. In entrambi i casi, il problema vero rimane intatto.
I collettivi, dal canto loro, rivendicano l’azione: la definiscono gesto di rabbia accumulata, dicono che nessuno si è fatto male, accusano i giornali di legittimare il potere e oggi il massacro in Palestina, e chiedono perché lo Stato si indigni per un’irruzione ma rimanga muto davanti alle stragi a migliaia di chilometri di distanza. Si può essere d’accordo o no, si può considerarla una lettura distorta e pericolosa, ma una cosa è certa: quella rabbia è lì, non sparisce se la si archivia come semplice “eversione”.
Invece la politica – tutta – preferisce il gioco di ruolo.
Il centrosinistra si trincera dietro il «percorso amministrativo» e il rispetto delle competenze: se la Questura o la Procura decideranno di sequestrare l’immobile, il patto si chiuderà; altrimenti va avanti. Traduzione: decidano altri, noi intanto resistiamo alle polemiche. Il centrodestra grida allo scandalo, parla di «stabile regalato a chi mina la sicurezza», pretende il sequestro qui e ora, ma dimentica comodi decenni di immobilismo quando al Viminale c’erano i suoi ministri.
Il M5S, come sempre, punta il dito su tutti: destra incoerente, Pd fuori controllo, e il quadro è completo. Tutti contro tutti, e tutti rigorosamente concentrati su Askatasuna.
Nel frattempo fuori da Palazzo Civico ci sono studenti che non arrivano a pagare un letto, lavoratori che fanno tre contratti in un anno, quartieri dove il presidio sociale è stato sostituito dalle promesse, forze dell’ordine sotto organico usate come scudo politico e non come risorsa da potenziare sul serio. C’è una città che si sente abbandonata, infantilizzata, trattata come platea da talk show, non come comunità da ascoltare.
Quando Lo Russo avverte che chiudere un immobile non risolverà il problema nell’era delle chat criptate e dei social, dice una cosa vera. Ma la dice da sindaco che, nello stesso tempo, difende un patto senza avere il coraggio di ammettere che il “percorso civico” convive con un clima di tensione che sfugge completamente alle procedure. Parlare di strategia integrata, intelligence, prevenzione, presidio sociale è bello nei discorsi al microfono, un po’ meno quando da anni i centri sociali, le periferie e gli studenti sono ascoltati solo quando succede il casino e si finisce sui giornali.
Dall’altra parte, chi invoca sgomberi e manette come panacea di tutti i mali alimenta una narrazione tossica: si chiude uno spazio, si sequestra un edificio, e il malessere evapora. Peccato che la storia italiana degli ultimi quarant’anni dica esattamente il contrario: ogni volta che si prova a risolvere un conflitto sociale solo con la forza, quello stesso conflitto riappare altrove, più arrabbiato, più radicalizzato, meno disposto ad ascoltare chiunque.
E poi c’è la scenetta – quasi grottesca – della Sala Rossa: Lo Russo interviene, difende la linea del Comune, critica il governo sui numeri della sicurezza, poi esce dall’aula mentre l’opposizione comincia a replicare. Quando rientra, deve giustificarsi: c’era un collegamento televisivo, un punto stampa, i tempi stretti.
È la metafora perfetta della politica contemporanea: parlare davanti alle telecamere, distribuire colpe, poi dileguarsi quando sarebbe il momento di restare, ascoltare, confrontarsi.

Alla fine, tutti invocano responsabilità, nessuno si prende davvero la propria.
Il governo centrale scarica sui sindaci, i sindaci restituiscono il pacco a Prefettura e Questura, le opposizioni usano Askatasuna come clava elettorale, i collettivi trasformano ogni azione in manifesto identitario. In mezzo, ci sono i giornalisti che fanno il loro mestiere e diventano bersaglio, e una città che ha la sensazione di essere solo lo sfondo di una guerra di posizione.
Il punto, però, è un altro: se l’unica risposta al malessere è litigare all’infinito su un patto di collaborazione con un centro sociale, significa che la politica ha rinunciato a fare politica. Quella vera: quella che prova a capire cosa c’è dietro un assalto, una manifestazione, una rabbia che non si lascia più rappresentare da nessuno.
È molto più comodo parlare di sgomberi, sequestri, protocolli, legalità evocata a giorni alterni, che mettere mano alle cause: disuguaglianze crescenti, solitudini urbane, precarietà strutturale, giovani che vedono come futuro solo uno stage sottopagato o la fuga altrove.
La verità amara è che Askatasuna, per questa classe politica, è perfetta così: un nemico permanente per la destra, un alibi permanente per il centrosinistra, un simbolo eterno per i collettivi. Più che un problema da affrontare, è un copione da ripetere.
Ogni volta che esplode un caso – ieri le OGR, poi Leonardo, oggi La Stampa, domani chissà – si riapre il teatrino: dichiarazioni indignate, accuse incrociate, mozioni, ordini del giorno, visite istituzionali. Passata l’emergenza, ognuno torna alla propria comfort zone.
Torino, invece, non può più permettersi questa fiction permanente. Perché l’attacco a un giornale non è solo un “episodio da condannare”: è il sintomo di una frattura profonda tra pezzi di città e le sue istituzioni, una frattura che non si rimargina con un patto scritto in Comune né con uno sgombero deciso al Viminale.
Se la politica continuerà a far finta che tutto si risolva litigando su Askatasuna, il messaggio che passerà sarà uno soltanto: i vostri problemi non ci interessano, ci interessano i vostri simboli.
E quando la distanza tra chi governa e chi vive la città si misura solo in simboli, il passo successivo è la sfiducia totale.
Quella, sì, molto più pericolosa di qualunque murales su un muro di corso Regina.
Alla fine basterebbe davvero poco per non farsi del male da soli: un silenzio, un passo indietro, una dichiarazione neutra. E invece no. Stefano Lo Russo ha scelto la via più rischiosa, quella che nessun sindaco con un minimo di fiuto politico dovrebbe imboccare: trasformare Askatasuna nel terreno su cui far inciampare sé stesso. La destra torinese non poteva sperare di meglio. Non perché abbia costruito un grande progetto politico, non perché abbia convinto la città, ma perché Lo Russo ha deciso di regalarle, spontaneamente, un assist perfetto. In un momento in cui l’opinione pubblica scalpita per un capro espiatorio, in cui la gente cerca una valvola di sfogo per scaricare rabbia, frustrazione, paura e insicurezza, il sindaco ha avuto la brillante idea di mettersi al centro del mirino difendendo, parlando, spiegando, giustificando. Avrebbe potuto starsene zitto. Avrebbe potuto smarcarsi. Avrebbe potuto dire una frase semplice: “Valuteranno le autorità competenti”. Invece ha deciso di infilarsi da solo nel tritacarne, trasformando un patto amministrativo su un immobile occupato in una battaglia simbolica che nessuno gli aveva chiesto di combattere.
La politica è fatta anche di omissioni strategiche, di silenzi intelligenti, di scelte ponderate. Lo Russo, invece, ha scelto la modalità opposta: la sovraesposizione. Ha preso Askatasuna e l’ha portata sulle sue spalle, come se difendesse un pilastro indispensabile della civiltà occidentale. Ha parlato troppo. Ha parlato male. Ha parlato nel momento sbagliato, amplificando il caos invece di disinnescarlo. E soprattutto ha fatto ciò che un politico non deve fare mai: ha trasformato un tema dell’opposizione in un problema della maggioranza.
Nel frattempo l’intera città si divide, spesso senza sapere esattamente perché. C’è chi è stufo dei centri sociali e cerca qualcuno su cui sfogare frustrazioni che nulla hanno a che vedere con corso Regina. C’è chi vive l’insicurezza come un’ombra costante. C’è chi non arriva a fine mese, chi non trova casa, chi convive con una precarietà che logora.
E poi ci sono i giornali, che fiutano l’occasione, alimentano il dibattito, lo rilanciano, lo drammatizzano.
Anche perché – si mormora da settimane – questa improvvisa ondata di centralità mediatica potrebbe tornare utile sul fronte della vendita della Stampa, un’operazione dove, dicono, si aggira anche l’ombra della sorella del governatore Cirio. In un contesto del genere, un sindaco dovrebbe pesare le parole come oro puro. Lo Russo, al contrario, ha aperto bocca con leggerezza, come se nulla stesse accadendo intorno a lui.
Il risultato? Un boomerang perfetto. Da una parte la destra ringrazia, perché oggi ha finalmente il suo slogan facile: “Lo Russo difende Askatasuna”. Uno slogan che funziona perché non chiede ragionamenti complessi, ma parla alle viscere. Dall’altra parte l’elettorato moderato osserva con crescente irritazione un sindaco che si è infilato volontariamente in un vicolo cieco. Poi ci sono i suoi, quelli del centrosinistra, che non dicono nulla ma pensano tutto: che bisogno c’era di esporsi così? A chi serviva? Perché farsi carico di un caso che non poteva portare alcun beneficio, solo rischi? Infine, c’è Torino. Una città che non ne può più di simboli, totem, battaglie ideologiche mentre i problemi veri – sicurezza, affitti, lavoro, servizi – restano lì, identici, irrisolti, immobili.
La verità è che Lo Russo ha fatto ciò che nessun politico dovrebbe fare in campagna pre-elettorale: ha dato agli avversari il loro tema perfetto, il bersaglio ideale, la narrazione immediata. Sta facendo il loro gioco, passo dopo passo. E se continua così, non sarà il centrodestra a vincere: sarà lui a perdere.
Perché in politica non conta solo ciò che fai, ma ciò che sembri. E oggi Lo Russo sembra quello che difende un centro sociale invece di difendere la città. Sembra quello che parla quando dovrebbe tacere. Sembra quello che accende un incendio invece di spegnerlo. Sembra, soprattutto, un sindaco che ha perso il controllo della narrazione e che rischia di perdere, insieme ad essa, anche le prossime elezioni.
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