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01 Dicembre 2025 - 18:54
Sveglia, italiani: pestati all’alba e derubati. Il nuovo salto di violenza dei coloni
All’inizio è soltanto un rumore secco, quello di un calcio dato con violenza a una porta nel buio totale delle cinque del mattino. Siamo nel villaggio beduino di Ein al-Duyuk, alle porte di Gerico. In una piccola casa usata come rifugio dormono quattro attivisti internazionali: tre italiani e una canadese. Gli aggressori irrompono gridando in inglese «Wake up, Italians!». Sono in dieci, tutti mascherati, alcuni con bastoni, altri con fucili. In pochi secondi lo spazio diventa un vortice di colpi: pugni, calci al volto, alle costole, all’addome, gli oggetti sparsi per terra, gli zaini aperti e frugati. Quando l’assalto si interrompe rimangono contusioni, lividi, dolore diffuso e quel frastuono di passi che si allontana lasciando una sola frase, sibilata in inglese: «Don’t come back here». Poi torna il silenzio di un’alba che arriva troppo presto.
Secondo le testimonianze delle vittime e le prime verifiche delle autorità locali, a colpire sarebbero stati coloni israeliani. L’agguato avviene in una comunità palestinese che, secondo la mappa degli Accordi di Oslo, rientra nella cosiddetta Zona A, cioè un’area che dovrebbe essere sotto piena responsabilità civile e di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). L’azione non si limita alla violenza fisica: gli aggressori portano via denaro contante, passaporti e telefoni. I quattro vengono trasportati all’ospedale di Gerico, curati e dimessi, per poi rientrare a Ramallah. Le ferite non sono gravi, ma l’attacco appare pensato per colpire persone, identità e capacità di muoversi. Lo confermano i lanci dell’agenzia palestinese WAFA e i dispacci dell’agenzia italiana ANSA, che riportano dettagli coincidenti sulle modalità dell’assalto e sul furto dei documenti.
I quattro volontari appartengono a reti internazionali che da anni praticano il cosiddetto accompagnamento civile nonviolento: una presenza sul campo, accanto ai pastori e alle famiglie palestinesi, per documentare minacce e aggressioni e accompagnare i bambini nel tragitto verso la scuola o gli agricoltori durante la raccolta delle olive. Tra le realtà italiane che coordinano queste missioni c’è Assopace Palestina, che diffonde il racconto di una delle attiviste: «Sono entrati in dieci, alcuni armati… ci colpivano ovunque; ci hanno lanciato addosso un liquido che sembrava alcol. In tre o quattro si sono accaniti con un bastone sul nostro compagno». È una descrizione puntuale, che restituisce la rapidità e la violenza dell’azione.
Le fonti mediche spiegano che tre attivisti riportano ferite moderate, mentre una volontaria risulta inizialmente più seriamente contusa, pur senza rischi vitali. La stampa internazionale, rifacendosi alle informazioni di WAFA, parla di circa dieci aggressori mascherati. In serata arrivano anche le dichiarazioni ufficiali italiane: i tre connazionali sono stati dimessi e stanno rientrando a Ramallah, come conferma il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che definisce l’episodio «gravissimo» e chiede a Israele di «fermare i coloni» perché «queste violenze non servono alla pace».
Dal Canada, patria della quarta volontaria, arrivano posizioni coerenti con una linea già consolidata negli ultimi anni: il governo canadese ha varato più pacchetti di sanzioni contro individui ritenuti responsabili o facilitatori della violenza dei coloni in Cisgiordania. Nel 2025 Ottawa ha persino partecipato, insieme ad altri Paesi occidentali, alle sanzioni contro due ministri israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, accusati di alimentare un clima permissivo verso gli abusi.
Il contesto in cui avviene l’aggressione è segnato da una crescita preoccupante della violenza dei coloni. Nell’ottobre 2025, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) registra 264 attacchi in un solo mese, il numero più alto dal 2006, anno in cui l’Onu ha iniziato a monitorare in modo sistematico. Dal gennaio al 7 novembre 2025 gli episodi stimati arrivano a circa 1.500. Il fenomeno è particolarmente intenso durante la stagione della raccolta delle olive, quando aumentano minacce, aggressioni e vandalismi. OCHA segnala, nello stesso periodo, oltre 5.700 alberi vandalizzati e diversi volontari internazionali feriti, un elemento che conferma come anche gli osservatori stranieri siano diventati un bersaglio.
Sul piano politico, l’escalation ha suscitato condanne anche ai vertici dello Stato israeliano. A novembre, il presidente Isaac Herzog ha criticato apertamente un violento raid di coloni nell’area di Nablus, in cui sono stati incendiati veicoli e si sono registrate aggressioni perfino ai soldati israeliani. È un gesto raro, che segnala la crescente pressione interna ed esterna affinché il governo intervenga.
Colpisce soprattutto il contesto geografico dell’attacco. Ein al-Duyuk è classificato come Zona A, dove teoricamente la presenza armata israeliana dovrebbe essere assente, salvo casi eccezionali. Ma i report delle Nazioni Unite raccontano una realtà molto diversa: espansione degli insediamenti, avamposti non autorizzati, controlli improvvisi e un numero crescente di episodi in cui le forze israeliane non intervengono o lo fanno in ritardo. La distanza tra la mappa giuridica e la realtà quotidiana è il terreno su cui si innesta l’assalto della scorsa notte.
Nel frattempo, negli ultimi due anni l’Unione Europea (UE) ha sviluppato una serie di strumenti per sanzionare chi si rende responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Dopo un primo via libera politico nel 2024, il Consiglio dell’Unione ha adottato sanzioni specifiche contro individui e gruppi legati alle violenze dei coloni in Cisgiordania. Il 27 novembre 2025, poco prima dell’aggressione di Ein al-Duyuk, Italia, Francia, Germania e Regno Unito hanno firmato una dichiarazione congiunta che condanna «il massiccio aumento della violenza dei coloni» e chiede lo stop alle espansioni insediative, citando in particolare il discusso piano E1, che rischierebbe di spezzare la continuità territoriale palestinese.
Un dettaglio significativo nei racconti delle vittime riguarda le parole usate dagli aggressori. Gli assalitori parlano in inglese, chiamando i volontari «Italians». È un tratto che ritorna in più testimonianze e che alimenta l’ipotesi che l’attacco sia stato mirato anche in base alla nazionalità. In Italia, infatti, molte organizzazioni della società civile hanno sostenuto nel tempo attività di cooperazione e monitoraggio in Palestina. Sono elementi difficili da verificare nell’immediato, ma la coincidenza di più versioni indica un’aggressione consapevole.
Le domande aperte restano molte, a partire dall’identità dei dieci aggressori e dalla provenienza degli avamposti da cui potrebbero essere arrivati. Il furto dei passaporti e dei telefoni rende più complicato ricostruire nel dettaglio la dinamica, ma le denunce sono state formalmente presentate alla polizia palestinese e le autorità italiane riferiscono di essere in contatto costante con i connazionali e con il Consolato a Gerusalemme. L’Onu, nei suoi dossier più recenti, continua a denunciare un quadro di impunità ormai strutturale: nell’ottobre 2025 OCHA ha registrato una media di otto attacchi di coloni al giorno.

Il villaggio di Ein al-Duyuk si trova in una delle aree più delicate della Cisgiordania: la Valle del Giordano, una linea di frizione costante tra comunità palestinesi, insediamenti agricoli israeliani e nuovi avamposti. Qui a finire nel mirino sono spesso i pastori e gli agricoltori, e con loro chi offre accompagnamento civile. La sottrazione dei documenti ai volontari non appare solo un furto, ma un messaggio diretto: controllo del territorio, intimidazione e volontà di limitare la presenza internazionale.
Dopo le dimissioni dall’ospedale, i quattro attivisti sono tornati a Ramallah, spiegando che non lasceranno il Paese prima della conclusione della missione. Le reti di solidarietà locali e internazionali hanno rilanciato rapidamente la notizia, ricordando il profilo dei feriti, l’orario dell’assalto e la dinamica dell’irruzione.
Sul piano politico e consolare, il caso rimette al centro la posizione dell’Italia. Il ministro Antonio Tajani insiste da mesi sulla necessità di sanzionare chi alimenta la violenza dei coloni e ricorda che qualsiasi processo di annessione, anche solo attraverso fatti compiuti sul terreno, «metterebbe fine alla prospettiva dello Stato palestinese». Resta da capire se le autorità israeliane apriranno un’indagine formale: nella maggior parte dei casi, storicamente, le aggressioni dei coloni non arrivano a un processo.
Intanto la curva della violenza non accenna a diminuire e, secondo le stime delle Nazioni Unite, resterà alta almeno fino alla fine della stagione agricola. La presenza dei volontari internazionali migliora la protezione delle comunità, ma l’aggressione di Ein al-Duyuk segna un ulteriore salto: quando vengono colpiti direttamente gli osservatori, il messaggio è chiaro e l’effetto intimidatorio può essere immediato.
Restano le immagini scattate poco dopo l’assalto. Non ci sono sangue o fori di proiettile sui muri, ma zaini vuoti, telefoni spariti, passaporti rubati. E due frasi che rimbalzano nelle ricostruzioni: «Wake up, Italians» e «Don’t come back here». La prima racconta la freddezza dell’irruzione, la seconda la volontà di colpire non solo i corpi, ma la determinazione di restare. L’oggi viene affidato al lavoro dei medici e dei diplomatici; il domani dipenderà dalla capacità di garantire indagini reali, protezione dei civili e un contesto politico che restituisca un minimo di coerenza tra mappe, leggi e ciò che accade davvero sul terreno.
Fonti utilizzate:
WAFA, ANSA, OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari), comunicazioni ufficiali della Farnesina, dichiarazioni del ministro Antonio Tajani, note del governo del Canada, report delle Nazioni Unite, media internazionali.
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