AGGIORNAMENTI
Cerca
Esteri
30 Novembre 2025 - 19:27
Netanyahu chiede la grazia mentre è sotto processo: Israele sull’orlo della rottura istituzionale
Una porta di legno scuro si chiude alle spalle dei legali, nel palazzo presidenziale di via HaNasi, a Gerusalemme. Sul tavolo resta un fascicolo voluminoso—oltre cento pagine, secondo diverse ricostruzioni: per alcuni media sarebbero 111—che contiene la richiesta formale di grazia per il primo ministro Benjamin Netanyahu. Pochi minuti dopo, dall’ufficio del presidente Isaac Herzog filtra una nota misurata ma inequivocabile: l’istanza è “straordinaria”, con “implicazioni significative”. Due parole che in Israele pesano come macigni, perché la domanda di clemenza non arriva dopo una sentenza ma nel mezzo di un processo che coinvolge il capo del governo in carica, imputato per corruzione, frode e abuso di fiducia in tre procedimenti aperti dal 2019: accuse respinte in blocco dal premier, che continua a dichiararsi innocente. Nel dossier spunta anche un’altra carta: la lettera con cui l’ex presidente statunitense Donald Trump invita Herzog a “perdonare completamente Bibi”, invocando l’unità nazionale e la stabilità regionale.

Isaac Herzog
Nelle parole formali diffuse dal palazzo presidenziale, quell’aggettivo “eccezionale” non è una formula di circostanza. La Legge Fondamentale sul Presidente dello Stato—il capitolo costituzionale che definisce i poteri della massima carica—stabilisce che il Presidente “ha il potere di concedere la grazia e commutare le pene”. Ma la prassi consolidata, richiamata tanto dalla dottrina giuridica quanto dalle linee guida dell’Istituto Israeliano per la Democrazia, è netta: la grazia si valuta dopo il completamento del giudizio, non mentre il dibattimento è in corso. Intervenire prima rischia di trasformare il Presidente in un organo capace di aggirare polizia, procura e tribunali, intaccando il principio di eguaglianza davanti alla legge e la percezione di indipendenza del sistema giudiziario. È per questo che la residenza presidenziale—spesso definita, non a caso, il “Quirinale israeliano”—ricorda che un intervento del genere è una valvola di sicurezza da attivare soltanto in circostanze rarissime.
Secondo conferme di media internazionali e israeliani, Netanyahu ha presentato una richiesta di grazia sostenendo che la prosecuzione del processo—formalmente iniziato nel 2020—alimenterebbe la polarizzazione interna, sottrarrebbe risorse a un Paese in costante stato di allerta e ostacolerebbe la piena operatività del governo. Il premier non offre ammissioni di colpa né segnali di un passo indietro. La presidenza, ricevuti gli atti, li ha trasmessi al Dipartimento Grazie del Ministero della Giustizia per i pareri tecnici, richiedendo in parallelo una valutazione alla consigliera legale del Presidente. Solo dopo aver raccolto tutte le opinioni, Herzog renderà nota la sua decisione.
La mossa ha immediatamente diviso il mondo politico. I leader dell’opposizione, tra cui Yair Lapid, ribadiscono che la grazia può essere concessa solo dopo una condanna, spesso accompagnata da un’assunzione di responsabilità e da un allontanamento dalla vita pubblica. I sostenitori del primo ministro, al contrario, sostengono che l’interesse nazionale e le circostanze eccezionali rendano secondaria la liturgia del processo.
Sul tavolo c’è anche la lettera di Donald Trump, che a metà novembre ha scritto a Herzog chiedendo di concedere una “piena grazia” a Netanyahu, sostenendo che serva a “chiudere la stagione delle persecuzioni” e a “riunire il Paese”. Il presidente israeliano ha replicato che ogni richiesta deve rispettare le procedure previste. Da quel momento, il tema è entrato anche nelle relazioni tra Washington e Gerusalemme, caricando il dossier di ulteriori implicazioni politiche e diplomatiche.
Il dibattito pubblico ha riesumato il precedente più ingombrante: il cosiddetto “scandalo del Bus 300” del 1986. Quattro sequestratori palestinesi furono catturati vivi e poi uccisi da agenti dello Shin Bet. All’epoca il Presidente Chaim Herzog, padre dell’attuale capo dello Stato, concesse la grazia preventiva ad alti funzionari dell’intelligence ancora prima dell’atto d’accusa, motivando la scelta con la necessità di proteggere la sicurezza nazionale e la stabilità delle istituzioni. La Corte Suprema giudicò legittimo l’intervento, chiarendo però che si trattava di un potere “eccezionale”, utilizzabile come “valvola di sicurezza” in situazioni limite. Ma il paragone ha limiti evidenti: quel caso riguardava problemi di sicurezza, comportò cambi ai vertici dello Shin Bet, e soprattutto non coinvolse un primo ministro in carica né interferì con un processo già avviato.
Sul piano strettamente normativo, il potere di grazia è attribuito al Presidente dall’articolo 11(b) della Legge Fondamentale. È un potere ampio, costituzionale e discrezionale. Nella prassi moderna, la gestione dei dossier passa per il Ministero della Giustizia, il cui Dipartimento Grazie istruisce i procedimenti e formula raccomandazioni. L’atto finale deve essere controfirmato dal ministro competente. Le grazie preventive, cioè prima di una condanna, sono rarissime: l’esperienza dimostra che intervenire durante un processo rischia di interferire con l’autonomia della procura e la terzietà dei giudici.
Il calendario giudiziario di Netanyahu è lungo e tormentato: l’atto d’accusa risale al 2019, le udienze sono partite nel 2020 e hanno attraversato crisi politiche, rinvii e sospensioni anche legati alla sicurezza nazionale. Le imputazioni riguardano presunti scambi di favori con imprenditori e media per ottenere una copertura favorevole, oltre a regali di valore. Il premier ribadisce di essere vittima di un processo politico e rivendica il proprio diritto a difendersi in aula, ma la richiesta di grazia chiede di chiudere il fascicolo per “interesse nazionale”.
Per il primo ministro, il dibattimento tiene “in ostaggio” la politica e limita la capacità del governo di affrontare sicurezza, economia e diplomazia. Per gli oppositori, è proprio l’integrità dello Stato di diritto a richiedere che i giudici concludano il processo, senza scorciatoie istituzionali. Herzog si trova così costretto a bilanciare clemenza ed eguaglianza, interesse generale e separazione dei poteri, in un equilibrio che la presidenza definisce un “esame responsabile e sincero”.
La discussione pubblica si alimenta anche di casi simbolo. Il soldato Elor Azaria, condannato nel 2016 per omicidio colposo a Hebron, chiese la grazia al Presidente Reuven Rivlin, che la negò per tutelare i principi di “purità delle armi” e l’immagine dell’IDF (Israel Defense Forces – Forze di Difesa Israeliane). La pena gli fu comunque ridotta dal Capo di Stato Maggiore. Anche l’ex premier Ehud Olmert presentò domande di riabilitazione post-condanna, rigorosamente limitate dai presidenti in nome dell’interesse pubblico. In tutti questi casi emerge lo stesso filo conduttore: per le figure istituzionali di alto livello, la grazia è uno strumento da maneggiare con estrema cautela.
Ora si speculano quattro scenari. Una grazia piena, concessa nel mezzo del processo, avrebbe un impatto istituzionale enorme e potrebbe alimentare contestazioni sulla parità davanti alla legge, aprendo la strada a ricorsi sulla natura e sui limiti del potere presidenziale. Un rigetto sarebbe coerente con la prassi e riaffermerebbe il ruolo della giustizia ordinaria, ma provocherebbe un contraccolpo politico. Un rinvio con richieste di condizioni—come un impegno a non delegittimare il sistema giudiziario—sarebbe una via inedita ma possibile. Esiste infine, almeno in teoria, la strada parallela della procuratrice generale, che in casi eccezionali può sospendere un procedimento, ma è una via separata e difficilmente percorribile senza motivazioni apolitiche e straordinarie.
Il tempismo è ciò che più divide: per i collaboratori del premier, la gestione simultanea delle crisi e il calendario processuale rendono impossibile sostenere il dibattimento. Per gli avversari, è proprio la tempistica a svelare la natura politica della mossa: Netanyahu ha difeso per anni il diritto di “provare la propria innocenza in tribunale”, e una sortita verso la grazia presidenziale appare come una scorciatoia. La lettera di Trump ha poi trasformato il caso in un test per l’autonomia decisionale delle istituzioni israeliane.
Al di là dei destini personali del premier, la vicenda mette a nudo tre nodi strutturali della democrazia israeliana. Il ruolo del Presidente, sospeso tra chi lo immagina come semplice ratificatore delle proposte del Ministero della Giustizia e chi lo vede come un arbitro dotato di ampia discrezionalità nei casi-limite. Il confine fra clemenza e interferenza, quando la grazia rischia di chiudere procedimenti che coinvolgono i vertici politici. E il rapporto fra politica interna e pressioni esterne, con richieste pubbliche provenienti da leader stranieri—come Trump—che impongono un surplus di sobrietà istituzionale.
Per ora, la presidenza ha annunciato che deciderà “solo dopo aver ricevuto tutti i pareri”. Tradotto: servirà tempo. Nel frattempo, mentre la macchina giudiziaria prosegue il suo corso, il Paese resta sospeso in un clima di attesa, fra comizi, manifestazioni contrapposte e interrogativi sul futuro del sistema istituzionale. Qualunque sarà l’esito, la richiesta di grazia ha già costretto Israele a fare i conti con il proprio specchio costituzionale, interrogandosi sul rapporto fra regole non scritte e realtà politica.
Gli osservatori invitano a tenere d’occhio tre elementi: la posizione del Ministero della Giustizia, decisiva per la controfirma; le eventuali reazioni della Corte Suprema, che potrebbero riaprire il dibattito sul perimetro del potere presidenziale; l’evoluzione dell’opinione pubblica, oscillante tra desiderio di sicurezza e sensibilità civica. In controluce resta la domanda più difficile: la clemenza può davvero servire all’unità nazionale senza sacrificare la giustizia? A Isaac Herzog spetta la risposta, una risposta che peserà non soltanto sul destino di un uomo o di un governo, ma sulla credibilità dell’intero ordinamento israeliano.
Fonti (in breve):
Haaretz, The Jerusalem Post, Times of Israel, Yedioth Ahronoth, Reuters, Associated Press, BBC News, CNN, Kaminitz Law Review, Israel Democracy Institute, Corte Suprema d’Israele, Legge Fondamentale sul Presidente dello Stato.
Edicola digitale
I più letti
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.