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Imam Shahin, protesta a Torino: oltre 130 in piazza contro l’espulsione

Manifestanti davanti al Cpr per chiedere la liberazione dell’imam Mohamed Shahin

Manifestanti davanti al Cpr per chiedere la liberazione dell’imam Mohamed Shahin

Manifestanti davanti al Cpr per chiedere la liberazione dell’imam Mohamed Shahin

Più di centotrenta persone si sono radunate oggi davanti al Cpr di Torino per chiedere la liberazione di Mohamed Shahin, l’imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di San Salvario finito al centro di un provvedimento di espulsione. Un presidio annunciato sui social dal comitato Torino per Gaza, deciso a trasformare un tratto anonimo di corso Brunelleschi nell’ennesimo spazio di battaglia civile contro i centri di detenzione amministrativa e contro una misura che molti definiscono sproporzionata. Perché, dicono i manifestanti, tutto nasce da una frase pronunciata in piazza lo scorso 9 ottobre: parole considerate controverse, certo, ma insufficienti — secondo la procura — a configurare un reato. Eppure sono bastate a far scattare l’espulsione e la reclusione nel Cpr di Caltanissetta, lontano dalla sua comunità e dalla sua famiglia.

Nel pomeriggio si sono alternati slogan, cartelli e voci tremanti di rabbia. «Una semplice dichiarazione fatta in piazza è bastata come scusa per arrestare Shahin, revocargli il titolo di soggiorno e rinchiuderlo in un Cpr», hanno ripetuto gli organizzatori, ricordando il rischio concreto che l’imam, una volta rimpatriato, finisca in un carcere egiziano, dove le denunce di torture non mancano mai. Il Viminale, però, mantiene la sua linea: Shahin sarebbe una minaccia per la sicurezza nazionale, radicalizzato e portatore di messaggi ritenuti pericolosi. Una lettura rigida che contrasta con la decisione della procura di archiviare l’indagine, segnalando l’ennesima frattura tra giustizia e amministrazione.

Attorno all’ingresso del centro non c’erano solo attivisti e membri della comunità islamica, ma anche una presenza massiccia di anarchici, segnalata dalle forze dell’ordine e già prevedibile viste le molte manifestazioni contro i Cpr degli ultimi mesi. Per molti, infatti, il bersaglio non è solo la gestione del caso Shahin, ma l’idea stessa dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, definiti dai manifestanti come «i luoghi più opachi e disumanizzanti della macchina repressiva dello Stato». Strutture pensate per trattenere chi ha un decreto di espulsione, ma diventate simbolo di un approccio securitario che ignora contesto, storie personali e perfino esiti giudiziari.

Chi è l'Imam Mohamed Shahin

Mohamed Shahin è un uomo di origine egiziana che vive in Italia da oltre vent’anni. Arrivato nei primi anni Duemila, si è stabilito a Torino, dove con il tempo è diventato una figura di riferimento per la comunità musulmana del quartiere di San Salvario. Guida da anni la moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, dove ha svolto attività religiosa, culturale e di sostegno sociale. Accanto al ruolo spirituale, ha insegnato lingua araba, partecipato a incontri pubblici e iniziative di dialogo interreligioso, costruendo un profilo di uomo integrato, con legami solidi, famiglia e figli nati in Italia.

La sua storia ha preso una piega improvvisa e drammatica nell’autunno 2025, dopo una manifestazione pro-Palestina durante la quale aveva definito l’attacco del 7 ottobre 2023 una “reazione” al conflitto israelo-palestinese. Una dichiarazione che, pur rientrando nel clima teso di quelle settimane, ha innescato una tempesta politica e istituzionale. Nel giro di pochi giorni, il ministero dell’Interno ha emanato un decreto di espulsione nei suoi confronti, sostenendo che rappresentasse una minaccia per la sicurezza nazionale e che fosse portatore di posizioni radicali incompatibili con la permanenza in Italia.

L’espulsione non è arrivata al termine di un processo penale, ma come misura amministrativa. Dal punto di vista giudiziario, infatti, non risultano accuse di terrorismo, istigazione alla violenza o reati di natura estremista. L’unico episodio contestato negli ultimi anni è legato a un blocco stradale durante una manifestazione. La procura ha inoltre archiviato l’indagine aperta sulle sue dichiarazioni, ritenendo che non costituissero reato.

Nonostante ciò, l’esito amministrativo è stato durissimo: revoca del permesso di soggiorno, arresto e trasferimento in un Centro di Permanenza per i Rimpatri, a centinaia di chilometri da Torino, dove la sua comunità e la sua famiglia continuano a vivere. I suoi avvocati hanno chiesto protezione internazionale, sostenendo che in Egitto l’imam rischierebbe persecuzioni, arresti arbitrari e violenze da parte del regime, da anni noto per la repressione dei dissidenti e degli oppositori religiosi.

Mentre lui rimane rinchiuso in un Cpr, la città è attraversata da una mobilitazione intensa: associazioni, gruppi religiosi, attivisti, sindacati, docenti universitari e semplici cittadini hanno organizzato presidi e appelli pubblici chiedendo la sospensione dell’espulsione. Per loro, il caso Shahin è diventato un simbolo di una deriva pericolosa: l’idea che un’opinione espressa in piazza possa tradursi in un provvedimento estremo, in cui un giudizio amministrativo pesa più della valutazione della magistratura.

Dall’altra parte, chi difende la linea del Viminale sostiene che un leader religioso ha una responsabilità particolare nelle parole che pronuncia, soprattutto in un contesto internazionale segnato da tensioni gravissime, e che lo Stato non può permettere ambiguità rispetto a chi viene percepito come vicino a posizioni radicali.

Il caso di Mohamed Shahin non riguarda solo un imam: è diventato un banco di prova nazionale sul rapporto tra libertà di espressione, sicurezza, appartenenza comunitaria e gestione del dissenso. Una vicenda che mette di fronte a un interrogativo inevitabile: fino a che punto un Paese democratico può spingersi nel reprimere le parole di un uomo, senza trasformare quel gesto in un segnale verso tutti gli altri.

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