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30 Novembre 2025 - 00:36
Il santuario di san Besso come si presenta a chi arriva dal sentiero proveniente da Campiglia. L’edificio religioso sembra protetto, quasi incastonato nella rupe che lo sovrasta (foto Roberta Ronchett
Mentre le vicende storiche, architettoniche e artistiche del santuario alpestre di San Besso, certamente il più conosciuto delle nostre vallate, sono abbastanza note, grazie anche al bel volume recentemente pubblicato da Stefania Crepaldi (1), non ci sono invece pervenute notizie sicure sulla vita di questo santo, culminata secondo la tradizione nel martirio in questa isolata località di montagna.
Ciò che sappiamo proviene da fonti leggendarie, trasmesse dagli storici di secoli successivi e dalla tradizione orale, spesso contradditorie e circonfuse dall’alone agiografico che non regge alla critica storica.
È comunque vero che anche la tradizione orale, in assenza di altri documenti attendibili, può essere accettata come significativa, specie sotto l’aspetto devozionale.
Il culto di san Besso è certamente molto antico ed il suo nome compare già alla data del 1° dicembre nel messale del vescovo eporediese Warmondo intorno all’anno Mille; Besso divenne inoltre uno dei patroni della città di Ivrea.
A confondere le idee, su documenti della seconda metà del Quattrocento compare il nome di un vescovo Besso, vissuto intorno al 770, del quale non si hanno notizie precise, per cui oggi si dubita persino della sua reale esistenza.
Vi è anche chi ha avanzato l’ipotesi che Besso sia stato un martire anonimo, chiamato così dal luogo di provenienza, la Bessa, sul versante biellese della Serra.
L’unica cosa che si può dire con certezza è l’antichità del suo culto; come scriveva già il canonico Savio a fine Ottocento: «nulla di preciso sapevasi intorno a lui, se non che egli era venerato quale santo» (2).

La statua di san Besso sui sentieri attorno al santuario. Questa è l’immagine dell’ultima processione, quella del 1° dicembre 2015, in un paesaggio insolitamente senza neve.

Una fotografia di altri tempi, con le persone in processione ai piedi della rupe.
Don Giuseppe Cinotti, ancor oggi tra gli storici canavesani più attendibili e preparati, ha esaminato criticamente le leggende su san Besso riportandole in un manoscritto del 1952 che è stato pubblicato dopo la sua morte (3).
Trattandosi di un bollettino fuori commercio ed ormai quasi introvabile, riportiamo quanto scrisse in proposito di queste leggende:
«Secondo l’antica versione del breviario manoscritto dell’archivio capitolare (di Ivrea) citata e dal Benvenuti e dal canonico Saroglia, san Besso, sfuggito alla strage dei suoi compagni tebei avvenuta in Agauno, sarebbe disceso in Val d’Aosta e di qui, passando pel boschetto di Fénis e toccando la sommità delle alpi di Champorcher e di Cogne, sarebbe venuto in Val Soana presso Campiglia. Quivi, essendosi posto a predicare, alcuni pecorai lo denunziarono ai Cesariani che lo uccisero precipitandolo da un alto monte. Sul luogo del suo martirio fu poi eretta una cappella, più volte rifatta.
Il suo corpo da Campiglia fu poi trasferito a Ozegna, ove stette 200 anni circa, finché Arduino, marchese d’Ivrea e re d’Italia, lo trasportò ad Ivrea.
Il Della Chiesa, nella sua Descrizione del Piemonte, dice che sarebbe stato ucciso da alcuni ladri per non aver voluto partecipare ad un loro latrocinio ed aggiunge che fu eletto dai cittadini d’Ivrea a loro patrono insieme ai santi Savino e Tegolo, il corpo del quale ultimo, come scrive sempre il canonico Saroglia, fu miracolosamente trovato dal vescovo Warmondo verso il 1000.
Il Benvenuti cita pure la leggenda dell’uccisione del Santo da parte dei ladri e racconta che, sepolto da essi al piè della rupe, il suo sepolcro era allietato da una meravigliosa fioritura che fu notata dagli indigeni che, scavando, ne ritrovarono le reliquie. Le quali, rubate da alcuni negozianti monferrini (che evidentemente dalle nostre parti godevano di cattiva fama!) che s’aggiravano in quei luoghi, furono messe in un sacco e trasportate ad Ozegna ove i pii ladri si fermarono a dormire. Ma l’oste, non meno ladro e non meno pio dei suoi clienti, aperto il sacco vide le ossa circonfuse di luce e, avendo capito che si trattava di un corpo santo, volendo assicurarlo al suo paese, vi sostituì le ossa di un cane morto che i monferrini al mattino si portarono via; ed il corpo di san Besso rimase ad Ozegna fino ai tempi di Arduino, che lo fece trasportare ad Ivrea con una solenne processione, durante la quale avvennero alcuni miracoli».
«Altre versioni leggendarie sono raccolte nell’opera di Robert Hertz (4), che dice di averle udite a Cogne. La prima, più semplice, dice che san Besso era un pastore santo, intento solo a pregare ed a curare il suo gregge, che era il più bello di quei dintorni. Alcuni pastori invidiosi lo gettarono dal monte, uccidendolo.
Qualche mese più tardi, durante l’inverno, persone di Cogne passando in quel luogo videro tra le nevi un bellissimo fiore e, scavando, trovarono il corpo del santo pastore e gli diedero ivi sepoltura. Secondo lo Hertz questa sarebbe la leggenda più antica.
Secondo l’altra, più macchinosa e quindi giudicata più recente, san Besso sarebbe stato un soldato della Legione Tebea fuggito dall’eccidio di Agauno del 286 ordinato dall’imperatore Massimiano Erculeo per punire i legionari che professavano la religione cristiana rifiutandosi di sacrificare agli dei pagani e all’imperatore.
Nascostosi in Val Soana sotto le vesti di pastore era un pastore modello, sempre in preghiera, ed il suo gregge prosperava tanto da essere oggetto di invidia agli altri pastori del luogo. I quali una volta, avendo rubato una pecora, invitarono Besso a mangiarla con loro; il quale invece li rimproverò così severamente che essi, nel timore di una denuncia, lo gettarono dall’alto masso; dal quale cadendo lasciò sulla pietra l’impronta del suo corpo. La tradizione prosegue con il rinvenimento del corpo del Santo e le varie vicende delle sue spoglie come si è detto prima.
Come già detto, si tratta di leggende prive di riscontri storici sicuri; vi è chi ha dubitato anche dell’appartenenza di Besso alla Legione Tebea, molto ridimensionata nel numero dei soldati martirizzati. Basti pensare che le varie tradizioni agiografiche e la devozione popolare sono giunte in passato ad enumerare 6600 o 6666 martiri tebei (molto più di un’intera legione), mentre oggi gli storici ne accettano non più di una decina e forse anche meno. Qualunque santo locale del quale non si ricordassero più l’epoca precisa e gli eventi della vita, era tranquillamente aggregato ai martiri tebei e rappresentato in abito di legionario romano».
Una versione molto bella e poetica della leggenda del ritrovamento delle reliquie di san Besso ci è stata trasmessa dall’indimenticabile don Balma, per trent’anni parroco di Campiglia, valente alpinista e profondo conoscitore della storia e folklore della sua valle (5):
«Sopra a Campiglia, in un punto ove i passeggeri sostavano prima di attaccare il tratto più aspro della salita per il Colle della Balma e dove forse vi era un antico tempietto pagano, Besso a causa della sua attività di cristiano militante era stato precipitato dall’aspra rupe che sovrasta la “balma” di ricovero ed aveva così terminato la sua vita di apostolato con una morte gloriosa. Presso la balma era poi stato sepolto affrettatamente, vicino ad altri passeggeri colà deceduti in inverno nel difficile passo alpino.
Narra la leggenda che la sua sacra salma restò lassù al di sopra delle verdi foreste, fra gli alti pascoli per molto tempo, finché il cristianesimo si aprì la sua via fino al cuore di tutte le popolazioni della nostra regione.
Dedicato alla SS.ma Madre di Dio sorse il tempio di Santa Maria di Doblazio, ove accorrevano da tutto il Canavese, dalla pianura e dalle valli alpine le genti a chiedere aiuto e conforto alle loro sofferenze materiali e morali, a seppellire i loro morti.
Una piccola comitiva di mercanti provenienti dai paesi di oltr’alpe e diretti alle loro case in Lombardia, per evitare la strada della Valle d’Aosta, battuta da truppe in guerra, e per poter sostare, sia pure brevemente, presso il santuario di Doblazio, aveva scelto la strada del Colle della Balma, per scendere verso la pianura.
Si era in primavera, e la neve aveva ostacolato non poco il loro cammino presso il lago di Miserin e reso difficile la discesa sui macereti.
Sotto il sole avevano proseguito il loro cammino tra i pascoli, ove incominciavano a spuntare i primi fiori di croco bianchi e viola, ed avevano raggiunto la “Balma”. Qui si erano arrestati, muti dallo stupore e dalla meraviglia. In un angolo su un piccolo ripiano grigio di rocce frantumate e di terriccio, ove non vi era un filo di erba, era sbocciato un grande fiore, alto sullo stelo, un giglio rosato, con i petali spruzzati di macchie rosse, come di sangue.
Contro lo sfondo scuro della roccia appariva preciso con i suoi sobri colori, al di fuori della realtà e dello stato naturale delle cose circostanti, come un fiore miracoloso, sbocciato ad indicare, per volere di Dio, il luogo dell’estremo supplizio e della sepoltura del santo martire.
Passato il momento di stupore, i lombardi cercarono di rendersi conto della straordinaria fioritura, ma non poterono venirne a capo: soprattutto per l’altezza della località, non vi era alcuna spiegazione logica possibile.
Decisero allora di scavare il terreno sotto la pianta stessa, e vennero così alla luce le ossa del santo martire, presso le quali su una piccola placca di pietra uno dei primi cristiani aveva inciso, con la punta del coltello, il nome del santo martire ed il motivo della sepoltura.
I viandanti decisero allora di prendere le sacre reliquie e di portarle nel loro paese d’origine in Lombardia, per deporle, come sacro pegno, nella loro chiesa parrocchiale: chiuse in un sacco per timore che fosse loro impedito questo trasporto e reso grazie a Dio, si rimisero in cammino.
A Ozegna però, ove si erano fermati per pernottare, l’oste si accorse, per la luce che emanava dal sacco, di quanto stava avvenendo, riuscì ad impossessarsene consegnandole alle autorità religiose, che depositarono infine le sante reliquie nella cattedrale di Ivrea.
Lassù sul luogo del martirio ai piedi della rupe non fiorisce più il giglio spruzzato di sangue, il “lilium martagon” che però si ritrova ancora abbondante poco sotto, sia presso la parrocchia di Campiglia, sia nei valloni laterali di Campiglia, Piamprato e Forzo, nel sottobosco fin sopra i 1500 metri.
Il suo bulbo color oro, come un tesoro nascosto, i suoi petali spruzzati di sangue, le sue grandi antere bruno arancio che alla brezza alpina si muovono spargendo il polline vitale verso le altre piante, sono il simbolo della vita del nostro martire canavesano che aveva sacrificato la vita per testimoniare questa Divina Parola».
Anche la notizia della traslazione solenne delle ossa del santo martire da Ozegna ad Ivrea per opera di Arduino o del vescovo Warmondo, peraltro acerrimi nemici, è priva di fonti storiche attendibili ed appartiene a quel filone fantastico leggendario che avvolge tutta la vita e le imprese del mitico re canavesano.
L’ultima notizia «leggendaria» è più recente, e riguarda il nome stesso della località e del masso dove san Besso subì il martirio.
In tutti i documenti antichi ed in tutte le visite pastorali consultate, a partire da quella di monsignor Asinari del 1647, il luogo è sempre designato come «San Besso in monte Fantono», toponimo evidentemente collegato al vicino alpeggio Fanton o Fantono, con ogni probabilità derivato dal nome del vecchio proprietario. Secondo il Cinotti la rupe era anche chiamata «Rupe Bes», col significato di «rupe del montone», ma che può anche essere collegato al nome stesso del santo ed al santuario.
Agli inizi del secolo scorso l’Hertz, che ha visitato questi luoghi nel 1912 attingendo notizie specialmente a Cogne, nella sua pubblicazione cita la località come «monte Fauterio», termine privo di alcun significato e che da allora è stato ripreso acriticamente in pubblicazioni successive.
Appare evidente che questo termine deriva da una lettura superficiale ed errata di qualche vecchio manoscritto, dove la n di Fantono è stata letta come u e on come eri, errori di lettura abbastanza frequenti su manoscritti specie seicenteschi di incerta calligrafia.
Anche l’ipotesi dell’Hertz che la rupe fosse oggetto di culti precristiani sacralizzata dal cristianesimo con la figura del Santo martire e la costruzione del santuario, appare molto suggestiva e verosimile, ha fornito spunto a molte supposizioni su riti celtici di adorazione delle rocce isolate, ma allo stato attuale è priva di riscontri oggettivi e rimane nel campo delle ipotesi suggestive ma da dimostrare con prove sicure e ritrovamenti archeologici.
Note
Crepaldi S., Itinerari nella devozione e arte sacra della diocesi di Ivrea: Ingria, Ronco, Valprato e Campiglia Soana, CORSAC, Cuorgné 2015, p. 243 e sgg.
Savio F., Gli antichi vescovi d’Italia. Il Piemonte, Torino 1898, p. 181.
Cinotti G., San Besso, il suo culto e le sue leggende, in: Bollettino della Società Accademica di Storia e Arte Canavesana, n. 13, Ivrea 1987, p. 67 e sgg.
Hertz R., Saint Besse, Étude d’un culte alpestre, in Sociologie Religieuse et Folklore, Paris 1928, p. 110 e sgg. Trad. italiana in Società Accademica di Storia e Arte Canavesana, Studi e documenti XIX, Ivrea 1994.
Balma P., Antiche leggende canavesane. Il giglio rosso di S. Besso in Valle
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