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Malacca affoga: tre Paesi travolti, centinaia di morti e soccorsi allo stremo

Case sommerse fino ai tetti, intere città isolate, ospedali in crisi e governi costretti ad ammettere ritardi e impreparazione: l’Indonesia conta almeno 303 vittime, la Thailandia sfiora le 160, la Malesia evacua decine di migliaia di persone mentre una tempesta rara nello Stretto di Malacca riscrive la geografia del disastro

Malacca affoga: tre Paesi travolti, centinaia di morti e soccorsi allo stremo

Malacca affoga: tre Paesi travolti, centinaia di morti e soccorsi allo stremo

Una barca di legno che raschia il soffitto di una casa non è un artificio letterario, ma la fotografia reale con cui una famiglia di Hat Yai ha abbandonato il piano terra trasformato in una vasca color fango per raggiungere il balcone del primo piano, improvvisato come banchina di sopravvivenza. Nella provincia di Songkhla, nel profondo sud della Thailandia, l’acqua sale fino a tre metri, inghiotte scooter, frigoriferi, bancarelle, mentre sull’altra sponda dello Stretto di Malacca, in Sumatra, l’odore di terra franata si mescola a quello del carburante degli elicotteri che portano viveri nelle vallate tagliate fuori da ogni strada. Il numero dei morti oscilla come il livello dei fiumi: tra Indonesia, Thailandia e Malesia il bilancio si avvicina e talvolta supera quota 350, con stime ufficiali aggiornate al 29 novembre 2025 che segnano un dato ancora più alto. L’unica certezza è che si tratta di un disastro regionale, vasto, complesso, e tutt’altro che concluso.

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Dietro l’estensione geografica ci sono tre Paesi che tracciano, ognuno a modo suo, una mappa del collasso. In Indonesia, secondo l’agenzia nazionale per la gestione dei disastri BNPB (Badan Nasional Penanggulangan Bencana), le vittime sono almeno 303 tra Sumatra Settentrionale, Sumatra Occidentale e Aceh, con centinaia di dispersi e decine di migliaia di sfollati. È un conteggio che cambia rapidamente e segue il ritmo di piogge estreme e frane scatenate da una tempesta rara nello Stretto di Malacca. In Thailandia, il governo ha indicato prima 145 morti, poi un aggiornamento a 162, mentre solo nella provincia di Songkhla il bollettino più recente parla di 126 decessi. Le acque hanno superato i tre metri in alcuni quartieri popolari, cancellando confini tra strade e canali. In Malesia, l’agenzia NADMA (National Disaster Management Agency) conferma 2 vittime, ma conta oltre 30.000 sfollati nei centri di accoglienza temporanei PPS (Pusat Pemindahan Sementara), con torrenti e fiumi oltre la soglia d’allarme in vari Stati della penisola. Numeri che oscillano, testimonianza della difficoltà nel rilevare i danni in territori dove infrastrutture e collegamenti sono crollati.

Sull’isola di Sumatra l’impatto è stato brutale. Le montagne si sono sbriciolate dopo giorni di piogge eccezionali: frane e colate di detriti hanno trascinato via strade, ponti, linee elettriche. Nei distretti di Tapanuli e Agam, i soccorritori avanzano soltanto in elicottero o lungo i fiumi, con le forze armate a supporto di un sistema che tenta di tenere il ritmo di decine di emergenze simultanee. Il quadro peggiora di ora in ora: in Sumatra Settentrionale il numero di morti è salito da 116 a 166 in poche ore, e in Sumatra Occidentale il bilancio è raddoppiato in meno di un giorno. In Aceh, le autorità confermano decine di vittime e un numero imprecisato di persone scomparse lungo i corsi d’acqua minori. Il terreno, saturo e indebolito dalla deforestazione, non regge più, e i torrenti si trasformano in fiumi di legno, metallo e fango.

La dinamica meteorologica che ha prodotto questo scenario è inusuale: secondo le analisi ufficiali, una perturbazione ciclonica formatasi nello Stretto di Malacca, un luogo dove queste strutture sono rare, ha alimentato una pioggia intensa e continua su aree già vulnerabili. Le autorità indonesiane hanno allestito centri di evacuazione per oltre 80.000 persone, sostituendo intere porzioni di servizi pubblici con ponti aerei che portano acqua, cibo e medicinali. Non mancano tensioni: in alcune zone, la distribuzione degli aiuti procede a singhiozzo e l’esercito ha dovuto presidiare i corridoi di accesso per evitare che i ritardi generassero disordini.

Nel sud della Thailandia, l’immagine simbolo è quella di Hat Yai, dove l’acqua ha raggiunto i tetti e lasciato auto impilate una sopra l’altra come fossero giocattoli. Una colonna di camion frigo è stata requisita per compensare la saturazione delle celle mortuarie degli ospedali. Le autorità hanno comunicato 145 vittime il 28 novembre, poi aggiornato il dato a 162 il giorno successivo, mentre il bollettino più recente indica 126 decessi solo a Songkhla. Il portavoce del governo Siripong Angkasakulkiat parla di 1,2–1,4 milioni di famiglie coinvolte e di una popolazione colpita compresa tra 3,6 e 3,8 milioni di persone. Il primo ministro Anutin Charnvirakul ha riconosciuto pubblicamente le lacune della risposta iniziale, annunciando indennizzi, sospensioni dei pagamenti e prestiti a tasso zero per il rilancio economico, oltre a fondi straordinari per rinforzare ospedali travolti dall’emergenza. Nel frattempo, l’Esercito reale thailandese posa passerelle di fortuna e porta via gli abitanti casa per casa. Ma ora i medici avvertono una seconda minaccia: leptospirosi, dengue e infezioni gastrointestinali alimentate da acque contaminate e rifiuti in decomposizione. L’elettricità torna a intermittenza, mentre intere aree resteranno senza acqua potabile ancora per giorni.

In Malesia, le due vittime confermate nello Stato di Kelantan non devono ingannare: l’impatto umano è enorme. Oltre 30.000 persone dormono nei centri PPS, distribuite tra gli Stati di Terengganu, Pahang, Perak e altri territori peninsulari. La protezione civile monitora sei fiumi oltre la soglia di pericolo e ha chiuso tratti stradali cruciali, compreso l’accesso all’aeroporto internazionale KLIA. Secondo NADMA, le precipitazioni rispecchiano il ciclo monsonico che va da ottobre a marzo, ma l’intensità crescente di questi episodi obbliga a rivedere bacini scolmatori, argini, barriere mobili e sistemi di allerta rapida, mentre gli ingegneri valutano i danni a ponti e argini.

Il quadro meteorologico che ha provocato la crisi disegna un fenomeno raro: una massa di pioggia alimentata da una tempesta tropicale in un tratto di mare dove la ciclogenesi è considerata insolita. I torrenti sono esplosi oltre il livello di guardia, le frane hanno colpito pendii già resi instabili dalla deforestazione e dall’estrazione mineraria, e in molte città i sistemi fognari hanno ceduto. Gli esperti collegano questa combinazione alla maggiore energia termica accumulata negli oceani e all’umidità in atmosfera, dinamiche coerenti con gli effetti del riscaldamento globale. Ma anche la gestione del territorio pesa: la perdita di vegetazione accelera il deflusso e intasa i canali, mentre l’espansione urbana in zone a rischio espone quartieri interi a eventi che diventano sempre meno eccezionali.

Nelle tre nazioni, il lavoro dei soccorritori si intreccia con bisogni immediati e con una domanda che rimbalza da Sumatra Settentrionale a Hat Yai fino a Kota Bharu: quanto erano pronti i sistemi nazionali a un’ondata di piogge così intensa? In Thailandia, lo stesso premier Anutin Charnvirakul ha ammesso che serviranno procedure più automatiche di evacuazione e chiusura delle scuole, così che un’allerta meteo non resti solo una notifica. In Indonesia, riaprire i valichi montani è la priorità assoluta per evitare la totale dipendenza dagli elicotteri. In Malesia, NADMA sta centralizzando la gestione dei centri di accoglienza e coordinando la catena logistica, nella consapevolezza che dati chiari e aggiornati possono evitare panico e congestioni in un territorio già messo alla prova.

La parte più dura, però, emerge nelle storie che stanno dietro ai numeri. A Songkhla, i soccorritori hanno trovato auto impilate dalla corrente come fossero modelli di plastica. A Kelantan, famiglie intere hanno portato nelle strutture PPSgabbie di polli, scatole di libri, foto di matrimonio salvate all’ultimo secondo: frammenti di vite che tentano di restare intere. A Sumatra, con le antenne telefoniche fuori uso, la rete radio comunitaria è diventata l’unico filo che collega i villaggi isolati alle squadre di soccorso. Una resilienza che non è retorica, ma pratica: persone che, mentre perdono tutto, fanno funzionare ciò che resta per salvare chi vive poco più in là.

Le previsioni parlano di un graduale miglioramento: le piogge si stanno attenuando nel sud della Thailandia, la situazione si stabilizza in Malesia, ma i suoli restano saturi e il rischio di nuove frane è tutt’altro che sparito. In Indonesia la priorità resta trovare i dispersi e assistere gli sfollati delle tre province più colpite. Su scala regionale resta un ultimo monito, che non ha bisogno di grafici: quando i fiumi esondano e le case si riempiono di acqua e silenzio, il vero nemico diventa il tempo. Ogni ora passata su un tetto, in un piano alto o in un villaggio isolato pesa come un macigno. Ma, allo stesso tempo, il coordinamento crescente tra governi, eserciti, organizzazioni umanitarie e comunità locali mostra il germe di una risposta diversa: ridurre la vulnerabilità prima che la prossima stagione delle piogge riporti tutto allo stesso punto.

Secondo gli ultimi dati disponibili, in Indonesia si registrano almeno 303 morti in tre province, centinaia di dispersi e 80.000 evacuati; in Thailandia tra 145 e 162 vittime e oltre 3,6–3,8 milioni di persone colpite, con livelli d’acqua fino a tre metri; in Malesia due decessi confermati e oltre 30.000–36.000 sfollati. La cifra diffusa in mattinata — circa 350 vittime totali — è stata superata nel corso della giornata, e non è escluso che il bilancio possa crescere man mano che i soccorritori raggiungeranno le aree rimaste isolate.

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