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Bissau, il giorno in cui la democrazia si è spenta con un interruttore

Il generale Horta N’Tam diventa presidente di transizione dopo un golpe lampo: risultati elettorali bloccati, opposizioni silenziate, pressioni internazionali e un Paese sospeso tra paura, narcotraffico e istituzioni fragili

Bissau, il giorno in cui la democrazia si è spenta con un interruttore

Bissau, il giorno in cui la democrazia si è spenta con un interruttore

La sala delle cerimonie del quartier generale di Bissau è nuda, spoglia, illuminata quel tanto che basta a proiettare ombre dure sulle pareti. Davanti a una bandiera nazionale e a un manipolo di ufficiali schierati come comparse di un rito già scritto, Horta N’Tam — fino al giorno prima capo di stato maggiore — pronuncia poche parole, giura e diventa ciò che l’Alto Comando Militare per la Restaurazione dell’Ordine ha deciso che debba essere: presidente di transizione per dodici mesi. È il 27 novembre 2025, e mentre fuori le serrande restano abbassate, le frontiere sono sigillate e l’aria è attraversata da un silenzio più eloquente di qualunque comunicato, una certezza prende forma: i risultati elettorali, attesi per il giorno precedente, non sono mai stati pubblicati. È un vuoto che assomiglia più a una sentenza che a un ritardo.

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La nomina di Horta N’Tam — indicato in alcune traslitterazioni come Horta Inta-A Na Man — non è l’atto fondativo di un nuovo corso, ma il compimento di una sequenza studiata. Il 26 novembre, un gruppo di ufficiali occupa la televisione di Stato, si presenta come Alto Comando Militare per la Restaurazione della Sicurezza Nazionale e dell’Ordine Pubblico e annuncia il “controllo totale” del Paese “fino a nuovo ordine”. Contestualmente sospende il processo elettorale, blocca la pubblicazione dei risultati provvisori, taglia le trasmissioni, limita i social, impone il coprifuoco, chiude i confini. È una presa di potere in diretta nazionale. Il giorno dopo, una breve cerimonia militare suggella la nuova architettura istituzionale: Horta N’Tam assume formalmente la guida della transizione.

L’ECOWAS e l’Unione Africana condannano l’intervento militare, definendolo senza esitazioni un tentativo di interrompere un processo democratico in corso. Chiedono la riattivazione dei conteggi e la liberazione dei funzionari elettorali. Tra gli osservatori presenti figurano anche ex capi di Stato come Goodluck Jonathan e Filipe Nyusi, che invocano il ritorno all’ordine costituzionale, mentre a Bissau si diffonde un clima di sospensione totale, politico e fisico.

Alle prime ore del 26 novembre, tre giorni dopo il voto, colpi d’arma da fuoco esplodono nei pressi del palazzo presidenziale e della sede della Commissione Elettorale Nazionale. Poche ore dopo, gli ufficiali in uniforme occupano la tv e formalizzano la presa di potere. Le strade si svuotano, le banche chiudono, i presìdi armati si moltiplicano. I due principali contendenti, il presidente uscente Umaro Sissoco Embaló e lo sfidante Fernando Dias, si erano già proclamati vincitori. L’attesa per i risultati ufficiali era altissima, e proprio quell’attesa è ciò che viene reciso.

Gli ufficiali giustificano l’intervento citando la necessità di “prevenire la disgregazione dello Stato”, evocando interferenze politiche e l’ombra onnipresente del narcotraffico, un tema che perseguita la storia recente del Paese. Ma le spiegazioni non convincono. Organizzazioni civiche, tra cui la coalizione Frente Popular, accusano Embaló e settori delle forze armate di aver orchestrato un “colpo di Stato simulato” per evitare la pubblicazione di risultati sfavorevoli. Dias sostiene di avere “verbali di seggio” che confermerebbero la sua vittoria e chiede che le urne vengano aperte, subito.

Il generale Horta N’Tam, figura centrale delle forze armate guineane, ha guidato lo Stato maggiore tra il 2023 e il 2025, ed è stato capo della guardia presidenziale. I rapporti con Embaló sono stati descritti come “di prossimità”. Nella sua prima dichiarazione da presidente di transizione promette di “combattere la corruzione e il narcotraffico”, garantire la sicurezza e portare il Paese verso un nuovo inizio in un anno. Ma è un impegno senza dettagli, privo di un calendario istituzionale verificabile.

Il nodo politico è doppio. La sospensione del processo elettorale priva la transizione della minima legittimazione possibile: il voto. Fermare i conteggi significa fermare l’unico meccanismo democratico ancora attivo. Al tempo stesso, la teoria del “colpo simulato”, rilanciata da Dias, suggerisce che potere politico e apparato militare abbiano agito in sinergia per evitare la resa dei conti elettorale. Una dinamica che, nella storia del Paese, non sarebbe nuova. Non a caso l’ECOWAS, l’Unione Africana, l’ONU, il Portogallo e la Francia chiedono la ripresa immediata del percorso costituzionale e chiarimenti sulla sorte dei detenuti politici, incluso l’ex presidente Embaló, la cui localizzazione rimane incerta per ore.

La Guinea-Bissau è un Paese segnato da colpi di Stato ricorrenti: almeno nove, tra riusciti e tentati, dal 1974 a oggi. Nel frattempo è diventata crocevia dei traffici di cocaina dall’America Latina all’Europa, grazie alla fragilità delle istituzioni e a un arcipelago costiero quasi incontrollabile. Le elezioni del 23 novembre 2025, che avrebbero dovuto ristabilire stabilità e regole condivise, si trasformano invece nel detonatore dell’ennesima implosione.

La “transizione di un anno” evocata dall’Alto Comando è un contenitore fumoso. Per funzionare, dovrebbe tradursi in sicurezza reale, riapertura di media e spazi di espressione, un calendario istituzionale preciso, la definizione dell’esito elettorale, la riapertura del Parlamento, la normalizzazione economica e un’azione concreta contro il narcotraffico. Se nulla di tutto ciò verrà messo per iscritto e reso verificabile, la promessa di dodici mesi rischia di diventare un tunnel senza uscita.

Il fronte politico contrario al golpe è ampio: il PAIGC denuncia manovre per interrompere un processo elettorale ormai vicino alla conclusione; la Frente Popular parla apertamente di “golpe simulato”. Chiede una sola cosa: aprire le urne. Dall’altra parte, i militari continuano a ribadire tre parole — ordine, legalità, sicurezza — senza però fornire prove né un percorso che giustifichi la sospensione dei risultati.

Nel frattempo, Embaló afferma telefonicamente a media internazionali di essere “detenuto”. Altri report parlano di fermi e arresti. All’informazione viene imposto un regime di opacità. Le prime 48 ore sono una lotteria di frammenti, smentite, comunicati parziali. E l’ambiguità alimenta un sospetto crescente: che la verità sia una vittima collaterale.

La crisi cade in una stagione già segnata da transizioni forzate in vari Paesi dell’Africa occidentale e centrale. L’effetto contagio è un timore concreto: sospendere le urne potrebbe diventare una nuova normalità. E quanto accade a Bissaurischia di fare scuola.

Nei prossimi giorni la cartina di tornasole sarà il comportamento delle istituzioni: pubblicazione dei risultati o nuovo calendario, margini reali per tribunali, media e opposizione, trasparenza sul fronte del narcotraffico, ruolo della ECOWAS come garante o come spettatrice impotente.

La Guinea-Bissau, con i suoi 2,2 milioni di abitanti, è piccola solo sulla carta geografica. È centrale nei corridoi della cocaina verso l’Europa, nei flussi migratori, nella sicurezza del Golfo di Guinea. Una transizione di un anno può essere un ponte, ma può anche essere un vicolo cieco. Dipenderà dalla pubblicazione dei risultati elettorali, da un calendario verificabile e dagli spazi lasciati alla società civile.

Per accreditarsi come argine e non come ennesima causa della crisi, le forze armate e il nuovo presidente di transizione dovranno dimostrare che la forza non è l’unico linguaggio che conoscono. Senza atti verificabili, limiti temporali rispettati e un patto trasparente con la società civile, il rischio è quello di rivedere lo stesso copione: urne chiuse, istituzioni sospese, una democrazia trattenuta sotto il livello dell’acqua, in apnea.

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