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Ombre su Torino
08 Novembre 2025 - 18:57
Eppure è andata proprio così.
Non c’è da stupirsi, è dall’alba dei tempi che gli incidenti domestici mietono vittime tra le mura di casa. Chiunque ha un aneddoto da raccontare. Spesso, quasi sempre, finisce tutto con qualche ferita, al massimo con una breve gita all’ospedale.
A volte, però, ci scappa il morto.
L’incredibile vicenda che si trova a narrare, suo malgrado, la signora Maria Ceccato è di questo ultimo tipo. Sono le 22 circa del 3 febbraio 1966 e suo marito, Giuseppe Santin, dopo una giornata di lavoro nel laboratorio dove fa il calzolaio, si è seduto a tavola per cenare. Siamo in via Torricelli 42, Crocetta, il salotto di Torino.
I manicaretti che la moglie gli ha preparato sono ancora in cottura sul fornello e, mentre la donna è sulla soglia della stanza adiacente, il signor Santin ha preso dalla dispensa un sedano. Impugna un coltello per affettare l’ortaggio ma la lama non è abbastanza affilata. Allora apre un cassetto e afferra un coltello da pane, appuntito, molto tagliente.
Da qui in avanti è la signora Ceccato a parlare in prima persona: “Teneva con una mano il sedano e con la destra il manico. Al primo colpo la lama gli è sfuggita e se l’è conficcata nel petto. Io stavo di fronte a Giuseppe. Ho udito il suo urlo terribile e l’ho visto accasciarsi in avanti. Non ha più parlato. Ho cercato di sollevarlo, ho visto il sangue che si allargava sulla tovaglia. Poi ho chiamato una vicina che ha telefonato al dottor Lo Piano”.
Il sanitario accorre subito nell’abitazione della coppia e, accorgendosi che la situazione è disperata, lo carica in macchina e lo porta al vicino ospedale Mauriziano.
Sono ottocento metri, 4 minuti di strada in auto. Giuseppe Santin, 39 anni, arriva in stato comatoso e muore pochi istanti dopo.
Una vicenda difficile da immaginare.
Eppure è andata proprio così.
O forse no.
Passano un paio di giorni e l’autopsia rivela uno scenario totalmente diverso. Si scopre che la coltellata che ha ucciso Santin ha penetrato la pelle un paio di centimetri appena ma ha creato un’emorragia inarrestabile.
È stato attinto con una precisione quasi chirurgica al cuore e, soprattutto, con una traiettoria obliqua, entrando da sinistra verso destra. Sarebbe stato impossibile per l’artigiano accoltellarsi da solo in quel modo.
È a questo punto che la polizia inizia a stringere in una morsa serratissima Maria Ceccato. Dopo due giorni di interrogatori senza sosta, la vedova corregge il tiro rispetto alle sue prime dichiarazioni. Quella sera non ha visto cosa è accaduto direttamente, ma è arrivata quando ormai era troppo tardi.
“Probabilmente” dice “Giuseppe è scivolato mentre era in piedi col coltello in mano. È caduto sulla punta, con tutto il peso del corpo, così la lama è penetrata obliquamente. L’ho tolta io dalle sue carni”.
Ma non è neanche questa la verità.
Giuseppe e Maria si sono sposati nel 1955 e, nello stesso anno, si sono trasferiti dalla provincia di Treviso, da cui sono originari entrambi, a Torino.
Trovano alloggio in una vecchia casa in via Torricelli 42 e, mentre lei fa la casalinga, lui apre una bottega da calzolaio in via Montevideo 2. L’uomo è molto capace nel suo mestiere ma ha un grosso problema: è un alcolizzato. È uno che tiene costantemente un fiasco vicino al banco da lavoro e che, parole di un oste della zona, è abituato a “bere una grappa di prima mattina, un bianco secco a metà giornata e diversi quartini nel pomeriggio”. Ogni giorno, tutti i giorni.
Questo tremendo demone, a parte provocargli una cirrosi epatica, una nevrosi ottica e una terribile instabilità caratteriale, fa andare in fumo i risparmi della coppia e mina irreparabilmente i rapporti tra i due.
Santin, col passare del tempo, reso schiavo dalla bottiglia, diventa sempre più irascibile, prima a parole e poi passando rapidamente ai fatti. I ritorni a casa brillo diventano urla per futili motivi, suppellettili spaccate e, infine, botte alla moglie.
La Ceccato sopporta e supporta il coniuge, passa più tempo che può in sua compagnia nella bottega per distrarlo, tenta in ogni modo di impedirgli di entrare nelle trattorie. Lo fa per il quieto vivere familiare ma anche per nascondere a conoscenti e clienti la condizione del consorte. Prima che salvare il proprio matrimonio pensa a preservargli la reputazione.
Giuseppe, quando è sobrio, riconosce ampiamente gli immensi sforzi della donna e la imprigiona in un’artefatta gratitudine. Le ripete ogni volta che avrebbe smesso di bere, che è una santa ad occuparsi di un disgraziato e al mattino, come se la cosa potesse risolvere i problemi, le porta anche il caffè a letto.
Ma non serve a niente.
Maria decide che è arrivato il momento, almeno tra le mura domestiche, di razionare il vino al suo partner. Un bicchiere a cena, uno prima di andare a dormire e, il giorno dopo, una nuova battaglia da combattere.
La sera del 3 febbraio 1966, però, una routine destinata a ripetersi all’infinito si interrompe bruscamente. Maria va a prendere Giuseppe al negozio intorno alle 20 e tornano all’alloggio sulle proprie biciclette. Si siedono a tavola per cena e il calzolaio beve in un fiato il bicchiere di vino del previsto razionamento. Non gli basta, ne vuole un altro ma la Ceccato gli risponde che, quella sera, riceverà altro alcol solo prima di coricarsi. Giuseppe diventa cupo, mangia in silenzio e, improvvisamente, si alza e afferra la moglie dai capelli. Inizia una zuffa senza esclusione di colpi durante la quale Maria impugna il coltello e, probabilmente senza neanche volerlo, lo trafigge al petto.
È da notare, tra l’altro, che la cosa non sembra neanche così grave all’inizio. Santin, infatti, pare essersi calmato di colpo e, senza dire neanche una parola, se ne va sul ballatoio dove c’è il bagno. La moglie lo segue, gli chiede di perdonarla ma l’altro risponde che sta bene, che non deve preoccuparsi. È per questo che, quasi come se non fosse accaduto nulla, la casalinga rientra e prepara il caffè. Poi, però, vede l’artigiano annaspare vicino alla porta, pallidissimo, con gli occhi fuori dalle orbite.
Disperata, allora, chiede aiuto a una vicina alla quale, interrogata sull’accaduto, riferisce che non sa cosa sia successo. “Forse” le riferisce “ha avuto un problema di stomaco, di digestione”.
Portata in tribunale con l’accusa di omicidio volontario, il PM richiede per Maria Santin una condanna a 13 anni.
La sentenza definitiva arriva il 9 maggio 1967. Viene condannata a sei anni e mezzo per omicidio preterintenzionale a seguito della concessione delle attenuanti generiche e della provocazione.
Non è stato un incidente ma, probabilmente, sarebbe stato impossibile che finisse troppo diversamente da così.
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