AGGIORNAMENTI
Cerca
Esteri
08 Novembre 2025 - 17:56
Sopravvissuti bevendo sangue di tartaruga. La famiglia Robertson e i 38 giorni alla deriva nel Pacifico
Dal legno spaccato dalle orche alla corda lanciata da un peschereccio giapponese, un viaggio nella sopravvivenza che ancora oggi insegna come si rimane vivi in mare.
La scena è quasi immobile, come in una fotografia bruciata dal sole: un gommone esausto, una scialuppa di appena due metri e settanta, sei figure scheletriche, una madre che incolla gli occhi alla sagoma lontana di una nave. La prima luce, dello stesso colore del sale, si riflette su un razzo segnaletico che si spegne troppo presto nella mano di Dougal Robertson, ex ufficiale della marina mercantile. Sulla plancia del peschereccio, qualcuno sussurra “pirati”, un altro, più testardo, dice di aver visto una donna e due bambini. È il 23 luglio 1972, e in quel momento la storia di una famiglia britannica in balìa del Pacifico si sposta, di colpo, dal bordo della tragedia al territorio della memoria collettiva.
Nel giugno del 1972, a circa duecento miglia dalle Galápagos, la goletta in legno Lucette – quarantatré piedi, acquistata vendendo una fattoria e quasi tutta la vita precedente – incontra un branco di orche. Non è un urto qualsiasi: tre impatti sullo scafo, il legno che si apre come un frutto acerbo, l’acqua che entra con la velocità di un giudizio. A bordo ci sono sei persone: il padre Dougal, la madre Lyn (talvolta indicata come Linda nelle cronache italiane), i figli Douglas, diciottenne, Anne, che più avanti scenderà a terra durante il viaggio, i gemelli Neil e Sandy, poco più che undicenni, e un viaggiatore occasionale, l’autostoppista Robin Williams, ventitré anni, omonimo del futuro attore americano. Dopo l’affondamento restano soltanto una zattera autogonfiabile e un piccolo dinghy in vetroresina battezzato Ednamair.
L’attacco delle orche, raro ma documentato, trapassa la Lucette in pochi minuti. Non c’è tempo per scegliere: si ammaina la zattera, si libera il dinghy, si afferrano pochi litri d’acqua, biscotti, cipolle, attrezzi di fortuna. La navigazione finisce, comincia la sopravvivenza. La famiglia Robertson non è un gruppo di dilettanti sprovveduti, ma nemmeno un team addestrato alle emergenze oceaniche. Da Falmouth erano partiti il 27 gennaio 1971 per un viaggio intorno al mondo, una “università della vita” pensata dal padre come esperienza formativa per i figli. Il mare, però, avrebbe impartito una lezione diversa, più cruda e più vera.
Sulla zattera, omologata per dieci persone ma già scomodissima in sei, le pompe a soffietto si rompono. Restano solo i polmoni dei ragazzi per mantenere la pressione. Quando le scorte di emergenza finiscono in meno di una settimana, la famiglia deve reinventarsi: raccogliere la pioggia con teli e tazze, pescare con ami improvvisati, catturare tartarughe, bere il loro sangue quando l’acqua scarseggia, essiccare la carne al sole, ridurla in olio per curare piaghe e recuperare energie. È un manuale di fisiologia applicata in mezzo a una distesa di sale. Dopo circa due settimane, la zattera cede e tutti devono stiparsi nel piccolo dinghy Ednamair, lungo appena due metri e settanta, senza cabina e senza ombra. A bordo, ruoli e turni diventano religione: chi spinge fuori l’acqua con i secchi, chi governa il piccolo fiocco di fortuna, chi tiene la rotta con l’unica bussola mentale disponibile, fatta di venti, correnti, stelle e memoria.
La famiglia stabilisce tre promesse, che diventano un codice morale. La prima è spietata ma necessaria: non ci mangeremo l’un l’altro, qualunque cosa accada. La seconda: non smetteremo mai di cercare una nave. La terza: torneremo a terra, con qualsiasi mezzo. Sono più che parole, sono architettura spirituale. Servono a impedire che la fame divori prima la mente che il corpo. E così i Robertson si affidano all’ingegnosità. Con il peso di una pentola a pressione trovato nella cesta da cucito di Lyn improvvisano un piombo per la lenza, trasformano ossa e rosticci in utensili, fanno colare il grasso delle tartarughe in olio che bevono in piccoli sorsi, spalmato poi sulle piaghe o mescolato al pesce per creare una sorta di stufato crudo. Quando la disidratazione diventa una trappola, ricorrono perfino a clisteri di reidratazione usando un tubo recuperato dalla scaletta della zattera: una soluzione spartana ma efficace per assorbire liquidi quando lo stomaco non regge più nulla.

Si fidano più delle correnti che di qualsiasi bussola, convinti che raggiungere la controcorrente possa trascinarli verso le rotte tra Panama e Hawaii, dove prima o poi una nave deve passare. Intorno, il calore brucia le pupille, la salsedine apre la pelle, i temporali tropicali ribaltano ogni cosa, le bonacce li sfiancano. Gli squali, attratti da ogni scia di grasso e sangue, restano presenze costanti. Una volta riescono persino a catturare un piccolo mako di un metro e mezzo: carne dura, ma proteine preziose.
Ogni giorno è un bilancio di sopravvivenza: quanti litri d’acqua raccolti, quante calorie recuperate, quanta energia spesa per pompare, remare, pescare, cucire, resistere. Gli adulti dimagriscono con velocità clinica, i ragazzi alternano momenti di cedimento a lampi di lucidità che salvano tutti. Il digiuno intermittente, in mezzo all’oceano, è un rito imposto dalla natura.
Il 23 luglio 1972 una nave appare all’orizzonte. È il peschereccio giapponese Toka Maru II, in rotta verso il Canale di Panama. Sul ponte, al primo avvistamento, qualcuno pensa a pirati. Poi un marinaio insiste: “Sono naufraghi”. La nave vira di venti gradi, accosta, lancia una cima sull’Ednamair. Douglas Robertson la sente ruvida e sporca, ma per lui quella corda è il filo che ricuce il mondo. “L’ho afferrata e ho capito che stavo rientrando nella vita.” Quando i pescatori li issano a bordo sono passati trentotto giorni dall’affondamento. Alcune cronache conteranno trentasette giorni nel solo dinghy, ma la sostanza non cambia: sei sopravvissuti, nessun morto, un’imbarcazione ridotta a un guscio e un oceano intero tra loro e la terra.
Il ritorno in Inghilterra non è semplice. La famiglia diventa un simbolo, ma la fama non consola. L’adrenalina si spegne, restano le domande e le ferite invisibili. Qualcuno li accusa di aver messo in pericolo i figli, altri li celebrano come eroi moderni. La coppia Dougal e Lyn si sfalda negli anni, i figli portano i segni del trauma ciascuno a modo suo. Eppure sanno che in mare hanno imparato le regole esatte della vita: non drammi romantici, ma procedure. Dougal Robertson fissa l’esperienza nel libro “Survive the Savage Sea” – in italiano “Naufraghi nel deserto blu” – pubblicato nel 1973 e destinato a diventare un classico della letteratura marinaresca. Trent’anni dopo il figlio Douglas aggiungerà il suo punto di vista in “The Last Voyage of the Lucette”, più intimo e spigoloso, attento alle fratture familiari e agli effetti collaterali della sopravvivenza. Da questa vicenda nasceranno documentari, interviste, perfino una fiction televisiva, mentre il piccolo Ednamair finirà al National Maritime Museum Cornwall, a Falmouth, il porto da cui tutto era cominciato.
A distanza di oltre cinquant’anni, il caso Robertson non è soltanto un racconto di mare, ma una lezione ancora attuale. Quelle tre promesse iniziali sono state la loro bussola morale e psicologica: decidere in anticipo ciò che è inaccettabile, quando la disperazione incombe, è ciò che impedisce la follia. Senza strumenti, Dougal si affidò a venti e correnti, dimostrando che la conoscenza empirica può sostituire una bussola. La priorità non fu soltanto bere, ma trattenere: l’olio di tartaruga, bevuto o spalmato, servì contro piaghe e disidratazione; i clisteri di acqua dolce divennero un espediente fisiologico. Mangiarono pesce crudo, tartarughe, perfino squalo, recuperando sali e vitamine da ciò che normalmente si scarta. Ogni oggetto ebbe una seconda vita, dai teli per raccogliere la pioggia al peso della pentola trasformato in piombo per la pesca. Tutto era regolato da turni rigidissimi: chi pompa, chi pesca, chi dorme, chi guarda l’orizzonte. In uno spazio di meno di tre metri, la disciplina era ossigeno.
Le orche, da allora, sono rimaste nel mito. L’episodio della Lucette è uno dei rari casi documentati di collisione con una barca in pieno oceano. I biologi lo studiarono per anni: non fu un attacco deliberato, probabilmente curiosità o gioco, ma la conseguenza fu devastante. Da allora, in ogni manuale di navigazione, il nome Robertson è citato accanto alle regole di sopravvivenza in mare.
La traversata della famiglia britannica non è un inno all’azzardo, ma una raccolta di buone pratiche nate dentro una catastrofe. Preparare scorte d’acqua ridondanti, doppie zattere, kit di pesca, specchietti, coltelli, teli per la pioggia, conoscere venti e correnti delle rotte, stabilire procedure di crisi: sono tutti principi che oggi figurano nei corsi ufficiali per la sicurezza in mare.
Il mare, nel ricordo dei Robertson, non è un nemico mitologico ma un ambiente che chiede rispetto e umiltà. Dougalscriverà anche un manuale tecnico di sopravvivenza, che in seguito aiuterà altri naufraghi a salvarsi. Il figlio Douglas, più disincantato, smonterà l’aura eroica con una frase rimasta celebre: “Non è stata fortuna, non è stato coraggio, è stata una somma di piccole scelte giuste, una dietro l’altra.”
Alla fine resta l’immagine più semplice, quella che riassume tutto: una cima lanciata da un peschereccio giapponese, un ragazzo che la afferra, il mare che, per un attimo, indietreggia. Tra il primo colpo delle orche e quella corda, passano trentotto giorni e una quantità incalcolabile di micro-decisioni. È tutto lì, nell’aritmetica della resistenza, in quella volontà silenziosa che ancora oggi continua a insegnare come si resta vivi.
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.