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Esteri
08 Novembre 2025 - 17:49
Istanbul, la tregua che non c’è: salta il dialogo tra Afghanistan e Pakistan
Un confronto che doveva blindare la tregua del 19 ottobre si è trasformato in un nuovo stallo. Doha e Ankara hanno provato a mediare, ma tra accuse incrociate, la partita sul controllo del TTP e i timori di nuove scosse lungo la Durand Line, la pace resta lontana. All’alba, sulla riva europea di Istanbul, la delegazione pakistana lascia l’hotel in silenzio, senza proclami né sorrisi di circostanza. Non ci sono strette di mano né comunicati congiunti, solo valigie caricate in fretta e un’ultima frase secca, pronunciata davanti alle telecamere: «I colloqui sono finiti». Parole del ministro della Difesa di Islamabad, Khawaja Asif, che chiudono una settimana di diplomazia e disinnescano, almeno per ora, le speranze che la fragile tregua scattata a Doha il 19 ottobre 2025 potesse trasformarsi in un accordo strutturale. Dall’altro lato, la replica del portavoce dell’Emirato islamico, Zabihullah Mujahid, è lapidaria: richieste pakistane «irragionevoli», tavolo «in stallo». La guerra delle parole è ripartita, mentre lungo la Durand Line il cessate il fuoco resta in piedi, ma soltanto «finché non verrà violato dalla parte afghana», come ha avvertito lo stesso Asif.
I colloqui di Istanbul, terzo round di un percorso aperto dopo gli scontri di frontiera di ottobre, si sono svolti sotto la mediazione congiunta di Turchia e Qatar. L’obiettivo dichiarato era trasformare la pausa delle armi in un meccanismo stabile di sicurezza lungo una linea di confine che taglia per 2.600 chilometri montagne, valli e villaggi dove la geografia si confonde con la politica. Ma il tavolo si è arenato su un punto cruciale: come affrontare la minaccia rappresentata dal Tehreek-e-Taliban Pakistan, il TTP, gruppo armato che Islamabad accusa di operare con impunità da basi in territorio afghano. Kabul ha respinto le accuse, ribadendo che «il nostro territorio non sarà usato contro Paesi terzi» e che «non sosteniamo gruppi ostili». È un nodo politico e militare che nessuna sessione, finora, è riuscita a sciogliere. Alla fine non è arrivata alcuna intesa scritta: «I colloqui sono terminati, la delegazione rientra senza programma per incontri futuri», ha scandito Asif ai microfoni di Geo News, precisando però che la tregua resta valida «finché non verrà violata». Da Kabul, Mujahid ha attribuito il fallimento all’«atteggiamento irresponsabile e non cooperativo» del Pakistan.

La tregua di Doha del 19 ottobre, firmata con la mediazione del Ministero degli Esteri del Qatar e il sostegno di Ankara, era stata salutata come un piccolo miracolo. Le parti avevano annunciato un cessate il fuoco «immediato» e l’impegno a definire «meccanismi per consolidare pace e stabilità durature». Una formula pragmatica, volutamente vaga, che rimandava ai successivi incontri la definizione dei dettagli: controllo delle frontiere, contrasto ai gruppi transfrontalieri, regole d’ingaggio e hotline operative. L’accordo, pur fragile, aveva prodotto effetti tangibili: il calo degli scontri, la riapertura a singhiozzo dei valichi di Torkham e Chaman/Spin Boldak, e una momentanea distensione. Ma senza un sistema di verifica robusto e garanzie reciproche, la tregua è rimasta una bolla sospesa.
Per Islamabad la priorità è chiara: porre fine al terrorismo transfrontaliero e impedire che il TTP colpisca obiettivi militari e civili nelle province di Khyber Pakhtunkhwa e Balochistan. Senza impegni verificabili contro il gruppo e senza la chiusura dei suoi presunti santuari, la tregua, spiegano fonti pakistane, resta un interludio instabile. Per Kabul, invece, la questione è di sovranità. L’Emirato islamico ribadisce il principio di non permettere l’uso del territorio afghano contro altri Paesi e accusa il Pakistan di violare la propria sovranità con «attacchi aerei e incursioni oltre confine». La leadership talebana respinge l’equazione secondo cui Kabul controllerebbe il TTP, e chiede che le responsabilità interne al Pakistan non vengano proiettate oltre la Durand Line. Queste due narrative, inconciliabili, si sono trasformate a Istanbul in distanza negoziale: i pakistani hanno chiesto assicurazioni scritte e meccanismi di verifica; gli afghani hanno bollato alcune richieste come «irragionevoli» e incompatibili con la propria autodeterminazione. Il risultato è stato prevedibile: nessun testo da firmare e un’agenda rimandata a data indefinita.
La crisi di ottobre, che aveva riportato la tensione a livelli altissimi, è scoppiata dopo le esplosioni del 9 ottobre a Kabul, che l’Emirato ha attribuito a «attacchi di droni pakistani». Da quel momento gli scontri di artiglieria hanno colpito i settori più tesi del confine, provocando decine di vittime tra militari e civili. La tregua del 19 ottobre ha spento l’incendio, ma non ha tolto la legna secca: rivalità storiche, ambiguità operative dei gruppi armati, economie di confine interdipendenti e traffici che non si fermano mai. Il confine tra i due Paesi resta un labirinto instabile di montagne, valli e clan. Dal Kunar al Waziristan, le catene di comando sono complesse, le milizie si muovono in modo autonomo e i tempi di reazione dipendono più dai fatti sul terreno che dalle decisioni delle capitali. In questo contesto, anche un singolo colpo sparato per errore può cancellare in un’ora i progressi diplomatici di settimane.
Il fallimento di Istanbul non è solo un problema bilaterale. La sicurezza regionale dipende anche da questo equilibrio precario: un eventuale collasso del cessate il fuoco riaprirebbe un fronte d’instabilità in un’area attraversata da reti jihadiste transnazionali e da gruppi pronti a sfruttare ogni varco. Le schermaglie di ottobre, ricordano fonti di intelligence citate da Al Jazeera, sono state tra le più violente dal 2021. Le conseguenze economiche sono immediate: chiusura dei valichi, code di camion, merci deperite, redditi persi, inflazione crescente. Ogni settimana di blocco vale milioni di dollari di scambi mancati. Ma la crisi non è solo economica: lungo la Durand Line si muovono anche migranti, famiglie divise, rifugiati economici. Ogni inasprimento delle regole o ripresa degli scontri colpisce sempre i più vulnerabili.
La mediazione di Qatar e Turchia è stata decisiva per fermare l’escalation a metà ottobre. Senza il loro intervento, la tregua non sarebbe nemmeno nata. Ma la tenuta politica di un cessate il fuoco non si misura sull’intesa iniziale, bensì sulla capacità di costruire fiducia nei giorni successivi. A Istanbul, tre elementi fondamentali non si sono materializzati. Mancano meccanismi di verifica — chi certifica una violazione, con quali strumenti, in quanto tempo? — e mancano impegni simmetrici, perché Islamabad chiede azioni contro il TTP mentre Kabul pretende la fine delle incursioni aeree. Senza reciprocità, nessuno è disposto a compiere il primo passo. Inoltre, i canali informali — i backchannel — che avrebbero dovuto consentire di disinnescare i momenti di tensione, non hanno funzionato: già dal secondo giorno si sono registrati scambi tesi e rigidità crescenti.
Le parole dei protagonisti fotografano lo stallo. Asif, da Islamabad, ha detto: «I colloqui sono finiti, ma il cessate il fuoco resta in vigore per il momento, a condizione che non sia violato dalla parte afghana». Un messaggio a doppio taglio, che garantisce la tregua ma traccia una linea rossa. Mujahid, da Kabul, ha ribattuto: «Le richieste pakistane erano irragionevoli, i colloqui sono in una fase di stallo». La contrapposizione è netta, perché dietro la semantica della diplomazia si nasconde il vero campo di battaglia: il TTP, un attore che nessuna delle due parti vuole legittimare ma che condiziona ogni discussione. Per Islamabad è il nemico interno che si nasconde oltre confine, per Kabul è una questione che riguarda solo la gestione interna pakistana. I mediatori avevano proposto una formula di compromesso fondata sul principio di “non-ospitalità e non-supporto a gruppi ostili”, ma renderla verificabile si è rivelato impossibile.
Il calendario degli eventi racconta la parabola della crisi: 9 ottobre, esplosioni a Kabul e accuse di raid pakistani; 19 ottobre, a Doha, l’annuncio del cessate il fuoco mediato dal Qatar; 25-28 ottobre, primi incontri tecnici a Istanbul, senza risultati; 7-8 novembre, la chiusura formale del tavolo e le accuse reciproche. La tregua resta in vigore, ma sospesa a un filo. Ogni incidente potrebbe trasformarsi nel pretesto per riaccendere il fuoco. Islamabad continua a chiedere «azioni verificabili» contro il TTP, Kabul insiste sul rispetto della propria sovranità e sullo stop alle operazioni oltre confine. Per rilanciare il dialogo servirà una road map credibile, una cornice che garantisca reciprocità e tempi verificabili.
Qatar e Turchia hanno ancora la credibilità per tenere aperti i canali, ma per trasformare la tregua in disgelo servono incentivi: garanzie politiche, aperture economiche e forse il coinvolgimento di altri attori regionali in grado di offrire monitoraggio e assicurazioni. La partita tra Pakistan e Afghanistan non è isolata: tocca le rotte energetiche, i corridoi commerciali e gli equilibri di sicurezza di un’Asia centrale dove ogni vuoto di potere viene riempito da attori non statuali o da potenze regionali in cerca di influenza.
Il fallimento di Istanbul, quindi, non è un incidente negoziale, ma un segnale strutturale: costruire fiducia in un contesto dove le parti non condividono nemmeno la diagnosi delle cause della violenza è quasi impossibile. Eppure la diplomazia ha ancora margini, se usata preventivamente. Un canale di crisi attivo giorno e notte, pattugliamenti coordinati nei settori più caldi, regole d’ingaggio scritte e una disponibilità a congelare alcune azioni unilaterali in cambio di passi misurabili sull’altra sponda potrebbero trasformare la tregua del 19 ottobre da parentesi a piattaforma. La lezione di Istanbul è semplice e brutale: senza un accordo su come verificare, anche ciò che si promette rischia di restare lettera morta. Il prossimo errore — o il prossimo gesto di responsabilità — dirà se il confine tornerà a parlare con la voce delle armi o con quella, più faticosa ma necessaria, della diplomazia.
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