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28 Ottobre 2025 - 12:15
La scena è di quelle che restano impresse: una bara consegnata alla Croce Rossa al valico, scortata tra camere che riprendono ogni gesto, trasportata all’istituto forense di Abu Kabir, a Tel Aviv, per lo scrutinio di esperti abituati a riconsegnare nomi alla materia più muta. Ma quando arrivano i risultati, il verdetto capovolge attese e significati: quei frammenti non appartengono ad alcuno dei 13 ostaggi che Israele ritiene ancora trattenuti nella Striscia di Gaza. Sarebbero, invece, resti di una persona il cui corpo era stato già recuperato e riportato a casa per la sepoltura. Lo definisce senza giri di parole un “inganno” che mina il processo di scambio, accende la politica israeliana e getta un’ombra lunga sulla fragile architettura della tregua.
Secondo quanto ricostruito da fonti israeliane citate dai media, l’episodio si consuma nella serata del 27 ottobre 2025 e viene confermato all’alba del 28 ottobre: la bara consegnata da Hamas contiene “resti” che non sono riconducibili a nessuno dei 13 ostaggi ancora detenuti, e che corrisponderebbero a un ostaggio i cui resti erano già stati restituiti in precedenza e sepolti in Israele. La conclusione arriva dopo le analisi genetiche completate ad Abu Kabir, lo stesso istituto che da mesi lavora senza sosta sulle identificazioni delle vittime del conflitto. La vicenda, rilanciata in Italia da HuffPost e ANSA, ha scatenato una nuova tempesta politica a Gerusalemme.
In risposta, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione d’emergenza per valutare le contromisure. Tra le opzioni sul tavolo, secondo indiscrezioni riportate dalla stampa israeliana e riprese dalle agenzie, ci sarebbe anche l’eventuale estensione della cosiddetta “linea gialla” – un corridoio di controllo militare – nelle aree di Gaza interessate dalle operazioni di recupero. Una reazione che segnala quanto l’episodio venga percepito come una violazione “di sistema”, più che un incidente.
Nell’aritmetica politica e umana della crisi, i numeri sono ferite aperte. Dopo il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti e dai partner regionali, Hamas ha consegnato i 20 ostaggi in vita previsti dall’intesa e parte dei 28 corpi di coloro che non sono sopravvissuti alla prigionia: qui si annida l’attuale corto circuito. Secondo ricostruzioni di stampa basate su fonti ufficiali, a metà ottobre non tutti i 28 corpi erano stati riconsegnati; in un caso, un corpo passato alla Croce Rossa e trasferito in Israele “non corrispondeva a nessuno degli ostaggi”, episodio che aveva già incrinato la fiducia tra le parti e messo in allarme i familiari. Il nuovo caso della “bara con resti già restituiti” agisce come una riapertura della stessa ferita.
Nelle ultime ore, la conferma più pesante è arrivata direttamente dall’ufficio del premier: i resti riconsegnati sarebbero “parti del corpo” di un ostaggio già recuperato nel passato. Di fronte alla contestazione israeliana, Hamas ribadisce da tempo di non riuscire a localizzare tutte le spoglie a causa della devastazione e dei bombardamenti, che avrebbero reso difficile – se non impossibile – raggiungere determinate aree o recuperare resti sepolti sotto macerie e sabbia. Ma per Gerusalemme quanto accaduto resta una “violazione” dell’intesa e del dovere di buona fede.
Dietro ogni trasferimento c’è la mano discreta della Croce Rossa Internazionale (ICRC), che ha rivendicato con fermezza il proprio ruolo di “intermediario neutrale” nelle operazioni relative a ostaggi, detenuti e resti mortali. L’ICRC ha precisato in più comunicati che i suoi team “facilitano” lo scambio, ma non lo “certificano”: non hanno la responsabilità di attestare identità o cause della morte, funzioni che competono alle autorità delle parti e agli istituti forensi. È un punto cruciale per comprendere come una bara possa transitare attraverso i valichi e finire ad Abu Kabir senza che nessuno, prima dei test, possa garantire che contenga i resti attesi.
La catena è complessa: prelievo dei resti da parte dei miliziani o dei servizi civili locali, consegna alla Croce Rossa, controllo di sicurezza, trasporto, ricezione in Israele, e infine estrazione dei campioni per l’identificazione genetica. È in questa ultima fase che emergono incongruenze già registrate a metà ottobre 2025, quando una delle salme consegnate non ha trovato corrispondenza con i profili in banca dati degli ostaggi. Un campanello che oggi suona ancora più forte.
Dalla parte israeliana circola una narrazione ancora più grave: secondo testimonianze di riservisti citati da Channel 12 e dalla Radio dell’Esercito, miliziani di Hamas avrebbero allestito una vera e propria “messa in scena” dello scavo, seppellendo un corpo prelevato da un edificio vicino per simulare un rinvenimento in loco, con tanto di chiamata alla Croce Rossa per assistere all’estrazione. La scena, stando a quanto riportato, sarebbe stata anche ripresa da un drone militare. La IDF non ha confermato ufficialmente la ricostruzione, che dunque va trattata con cautela; resta però il peso politico della versione, rimbalzata oggi sulle agenzie internazionali.
Dal lato palestinese, la replica è nota: l’organizzazione afferma di scontare “difficoltà operative” enormi nel recupero dei corpi a causa di macerie, ordigni inesplosi e infrastrutture distrutte, e chiede – come da settimane – attrezzature specialistiche e corridoi sicuri per le squadre di recupero. È il nodo strutturale di tutte le operazioni di ricerca dei resti in contesti di bombardamenti prolungati e crolli diffusi.
La riunione d’emergenza convocata da Netanyahu è più di un gesto simbolico. In gioco non c’è solo la restituzione dei resti mancanti, ma l’intera architettura del cessate il fuoco, già incrinata nelle scorse settimane da accuse reciproche di ritardi e inadempienze. In Israele, il fronte politico e quello delle famiglie chiedono una linea durissima: per i primi, la priorità è ripristinare deterrenza e disciplina negoziale; per i secondi, accelerare e chiudere una volta per tutte il dossier degli ostaggi, vivi e morti. L’opzione di estendere la “linea gialla” – cioè aree di controllo operativo dell’IDF per “bonificare” zone e garantire gli scavi – è un’ipotesi concreta secondo i media, benché non priva di rischi sul terreno, dove ogni variazione dello stato di fatto rischia di provocare frizioni e incidenti.
Sul fronte esterno, gli Stati Uniti e i mediatori regionali considerano la restituzione di tutti i resti parte “non negoziabile” dell’intesa. Già a metà ottobre, fonti governative israeliane avevano ribadito pubblicamente che Hamas doveva completare la consegna dei 28 corpi previsti; non è un caso che ogni “incongruenza” venga letta come una violazione che esige risposta.
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Nella Hostages’ Square di Tel Aviv, la pressione delle famiglie non conosce tregua. Per chi attende i propri cari, anche la parola “resti” è una lama: significa smettere di sperare in un abbraccio e cominciare a vegliare un nome. Per le famiglie dei deceduti, invece, significa almeno poter chiudere un cerchio. Da settimane, i parenti dei caduti hanno chiesto agli inviati statunitensi di “non lasciare nulla di intentato” per ottenere la restituzione integrale delle salme, contestando i ritardi e l’incertezza su destinazioni e custodìe dei corpi. L’episodio della bara con “resti già sepolti” aggiunge frustrazione a dolore e incertezza.
Il caso odierno non nasce nel vuoto. Il 15 ottobre 2025, in piena fase di implementazione della tregua, l’esercito israeliano aveva comunicato che uno dei corpi consegnati “non corrispondeva a nessuno degli ostaggi”. Nelle stesse ore arrivavano, invece, i resti di altri due ostaggi, a conferma di una dinamica a singhiozzo, fatta di passi avanti e brusche retromarce. Quella giornata si chiuse con un clima avvelenato: da Gaza, il ministero della Sanità annunciava la ricezione di 45 salme palestinesi restituite da Israele, mentre dai laboratori forensi si moltiplicavano le domande sulla provenienza e sulla catena di custodia di alcuni corpi. Oggi, pur in un contesto diverso, riaffiorano le stesse incertezze.
La Croce Rossa Internazionale ha ripetuto più volte che “è responsabilità delle parti ricercare, raccogliere e trasferire i resti dei deceduti, facilitandone il ritorno ai familiari”. L’ICRC agevola lo scambio ma non lo certifica, e richiama tutte le parti alla dignità delle operazioni: niente esposizioni pubbliche, niente spettacolarizzazione, solo sobrietà e rigore. In diversi comunicati tra febbraio e ottobre 2025, l’ICRC ha segnalato anche criticità logistiche e morali nei trasferimenti, invitando a rispettare la riservatezza dei soggetti coinvolti e a garantire corridoi sicuri per il recupero dei resti. È dentro questa cornice che il “caso della bara” va letto: un’interruzione di fiducia che mette a rischio la cooperazione tecnica senza la quale la politica resta lettera morta.
Sullo sfondo, la diplomazia tiene il fiato sospeso. Le Nazioni Unite, la Croce Rossa, gli Stati Uniti e i mediatori regionali hanno puntellato il cessate il fuoco su un principio semplice: la reciprocità. Consegna degli ostaggi e dei resti, rilascio dei detenuti palestinesi, ingresso di aiuti umanitari, progressivo arretramento militare. Ogni anello che salta – come mostra il caso della bara – produce una scossa tellurica su tutte le altre voci dell’accordo: dai flussi di aiuti alla gestione dei valichi, fino alle aree di demilitarizzazione e ai piani per la sicurezza a Gaza. Già nelle scorse settimane, su questo terreno, non sono mancati strappi e reciproche accuse di “trappole” negoziali.
Al netto delle responsabilità politiche, la geografia della distruzione a Gaza spiega parte della confusione. Quartieri rasi al suolo, cimiteri sconvolti, fosse improvvisate, sabbia e calcestruzzo che ricoprono corpi per mesi. In questo contesto, ricostruire la mappa dei resti è un compito che richiede attrezzature, accessi coordinati, e – soprattutto – tempo. Le fonti umanitarie insistono: senza garanzie di sicurezza e strumenti adeguati, i recuperi rischiano di essere parziali, lenti, o di generare errori e scambi. È una verità scomoda, ma imprescindibile, che non assolve nessuno dall’obbligo della buona fede.
Il “caso della bara” non è un dettaglio macabro nella statistica della guerra. È un test della tenuta dell’accordo e della capacità delle parti di rispettarne i cardini. Se le prossime settimane mostreranno avanzamenti nella restituzione dei resti e nella chiusura dei dossier forensi, l’episodio potrà essere archiviato come un incidente grave ma superabile. Se, al contrario, diventerà un precedente, lo scambio rischia di incagliarsi, con ricadute su aiuti, sicurezza e prospettive di una normalizzazione – per quanto ancora lontana – a Gaza.
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