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16 Settembre 2025 - 12:05
A sinistra l'assessore regionale alla sanità Federico Riboldi
Quante volte, cercando una visita “urgente”, vi siete sentiti dire di richiamare tra qualche settimana? Se vi è capitato, non siete soli. Non è una svista, non è sfortuna: è un sistema costruito per non funzionare, che finge trasparenza mentre pratica quotidianamente il contrario. Da mesi lo stesso ministero della Salute denuncia “situazioni indegne” nella gestione delle liste d’attesa: ritardi mascherati, prenotazioni rinviate, agende che non si aprono, numeri che non corrispondono alla realtà. E mentre si gioca con gli algoritmi e con le statistiche, milioni di persone rinunciano a curarsi.
Il ministro Orazio Schillaci ha dovuto scrivere due lettere alle Regioni in dodici mesi per chiedere una gestione più efficiente delle liste. Non parliamo di un problema nuovo, ma di un vizio antico che oggi ha un volto preciso: i dati ufficiali che non tornano, alterati da pratiche di maquillage amministrativo. Sulla carta, le priorità sono chiare: ricetta con classe U (urgente) da evadere entro 72 ore, B (breve) entro 10 giorni, D (differibile) entro 30 o 60 giorni, P (programmata) entro 120 giorni. In teoria. Nella pratica, le attese si misurano in mesi, a volte in anni, e il cittadino si trova preso in ostaggio da un CUP che più che “centro unico di prenotazione” sembra un muro invalicabile.
Il trucco più usato si chiama “blocco delle agende”: si entra sul portale o si chiama il numero dedicato e si scopre che non c’è nessuna disponibilità. Né a breve, né a lungo termine. È una pratica vietata, perché la normativa nazionale – l’ultimo Decreto-Legge 73/2024, convertito in Legge 107/2024 – impone che venga sempre offerto un appuntamento, anche in strutture private accreditate. Ma la realtà è che il sistema preferisce insabbiare: “richiami tra qualche settimana” è la formula magica che fa slittare la data di inizio attesa, migliora l’indicatore ufficiale e peggiora la vita del paziente. Lo stesso copione agli sportelli: “non ci sono posti, torni domani”. E a peggiorare il quadro ci si mettono spesso anche i medici stessi, che “dimenticano” di aprire le proprie agende, tenendo chiuse le disponibilità e dirottando così i pazienti verso le visite private, magari nello stesso studio dove non trovavano posto nel pubblico. Una pratica diffusa, tollerata e devastante, che trasforma il diritto alla cura in un mercato parallelo. Nel frattempo, chi ha soldi paga una visita privata, chi non può "muore".
Uno studio AGENAS con la Fondazione The Bridge ha smascherato il teatrino: solo il 18% delle persone con ricetta U riesce a prenotare entro le 72 ore previste, l’80% aspetta oltre. Nel 40% dei casi con classe B i dieci giorni diventano un miraggio. E non è certo colpa dei cittadini che “dimenticano” di prenotare: è il sistema che li ingabbia. Le conseguenze sono drammatiche: nel 2024 quasi sei milioni di italiani – il 9,9% della popolazione – hanno rinunciato a visite ed esami per tempi o costi eccessivi, in peggioramento rispetto al 7,5% del 2023. Significa che la salute è diventata un privilegio.
E i dati ufficiali? Una favola. Basta rimandare la prenotazione e la “data zero” dell’attesa slitta: così nei registri risulta che le code sono più corte di quanto siano in realtà. È un trucco che sporca i numeri e inganna i cittadini. Senza una misurazione fedele dei tempi – a partire dalla prescrizione e non dalla prenotazione tardiva – non c’è piano che tenga. Eppure la legge lo prevede: obbligo di trasparenza, pubblicazione dei dati aggiornati, piattaforme interoperabili con la Piattaforma nazionale delle liste d’attesa gestita da Agenas. Ma senza controlli, restano solo proclami.
Il governo, sulla carta, aveva imposto un accordo alle Regioni introducendo i poteri sostitutivi, un commissariamento di fatto per chi non rispetta gli standard. La resistenza è stata feroce, ma almeno un principio è stato scritto: se le Regioni non garantiscono i diritti minimi, interviene lo Stato. Nel frattempo, però, le aziende sanitarie continuano a fare melina.
E qui entra in gioco il Piemonte, dove un assessore (Federico Riboldi) si vanta un giorno sì e l'altro pure di aver ridotto le liste.... Peccato che anche qui i cittadini si scontrino con lo stesso muro: agende bloccate, sportelli che invitano a ripassare, visite “urgenti” che diventano programmabili solo a parole. La Regione ha istituito persino un’Unità centrale di gestione dell’assistenza e un RUAS, responsabile unico, per coordinare tutto. Sulla carta sembra la rivoluzione, nella vita reale i problemi restano identici.
Gli esempi concreti non mancano. Nella Città della Salute di Torino capita che per una risonanza magnetica urgente si venga spediti a sei mesi più avanti. Nell’ASL To4 numerosi cittadini denunciano agende chiuse per cardiologia e oculistica, CUP che non offre alternative, sportelli che rimandano. Eppure la normativa dice chiaramente che, se il pubblico non garantisce i tempi, l’ASL deve indirizzare al privato accreditato, con il cittadino che paga solo il ticket. Ma questo diritto resta spesso lettera morta.
Persino il piano straordinario delle prestazioni serali e nei weekend – oltre 100.000 visite extra orario entro agosto 2025 – è un cerotto che non cura la malattia: un sistema in cronica carenza di personale e incapace di garantire i diritti basilari. Si mandano i medici a lavorare la sera o il sabato, si sbandierano i numeri come un successo, ma la realtà è che il giorno dopo le liste sono ancora lì, più lunghe di prima. Non basta spremere il personale, serve cambiare la macchina che continua a produrre attese infinite.
Il paradosso è che gli strumenti ci sarebbero. La legge c’è, le piattaforme digitali pure, i fondi non mancano. Ma se le agende restano chiuse, se la data di inizio attesa viene falsata, se le ASL non applicano i percorsi di tutela, allora tutto resta sulla carta. Ed è proprio questo che trasforma il problema sanitario in una questione politica: perché senza dati veritieri non c’è governo delle liste, e senza governo delle liste non c’è diritto alla salute.
Non bastano più slogan e promesse di “piani straordinari”. Servono regole ferree e responsabilità dirette. Apertura reale delle agende, prenotazione garantita al primo contatto, invio automatico al privato accreditato se il pubblico non ha posti, monitoraggio a partire dalla data della prescrizione e non da quando si riesce a prenotare, controlli immediati e correttivi per le aziende che non rispettano gli standard. E soprattutto trasparenza: dati accessibili a tutti, in tempo reale, perché la salute non può essere nascosta dietro un file Excel.
Perché la salute non è una gentile concessione, è un diritto. E mentre la politica discute di osservatori e task force, i cittadini pagano con il tempo. E il tempo, quando si parla di salute, non è una variabile neutra: è la differenza tra una diagnosi tempestiva e una malattia che avanza. Oggi invece il messaggio che arriva ai piemontesi e agli italiani è sempre lo stesso: arrangiatevi. E intanto le liste restano lì, bloccate, come un macigno sulle spalle di chi chiede solo di essere curato nei tempi che la legge gli garantirebbe.
E allora, se la Regione Piemonte vuole davvero dimostrare di aver fatto un passo avanti con il suo CUP unico e i 100.000 appuntamenti extra-orario, dovrebbe prima avere il coraggio di mostrare quante agende sono ancora chiuse, quante prenotazioni “urgenti” finiscono dopo mesi, quanti pazienti vengono rimandati indietro con un “torni domani”. Perché i numeri sventolati in conferenza stampa servono a poco se poi il malato che bussa allo sportello riceve solo un diniego. La verità è che, al di là delle vetrine istituzionali, il sistema resta bloccato e i cittadini continuano a pagare il prezzo più alto: la loro salute. E di questo non possono non rispondere il presidente Alberto Cirio e l’assessore regionale alla Sanità Federico Riboldi, che continuano a parlare di efficienza e risultati mentre le agende restano chiuse, i medici giocano a fare i furbi e i malati restano a casa.
In Piemonte la sanità continua a presentarsi come un castello di carte, ma è nell’ASL To4 che la fragilità si trasforma in una realtà quotidiana fatta di rinunce, frustrazioni e disperazione. I dati aggiornati ad agosto 2025 raccontano una situazione che non ha nulla di civile: visite e accertamenti che non arrivano prima di un anno, spesso due, con cittadini costretti a vivere nell’attesa e malattie che non aspettano. Non si tratta di numeri astratti, ma di mesi e anni che scorrono mentre i pazienti restano bloccati in un limbo.
A Settimo Torinese, al Poliambulatorio, una prima visita oculistica si fissa dopo 648 giorni. Significa che un paziente che oggi ha un disturbo visivo potrà essere visitato, forse, nel 2027. Due anni e mezzo di buio, in cui l’occhio peggiora e la paura cresce. A Gassino non va molto meglio: 526 giorni per lo stesso esame. Ad Ivrea, nel Poliambulatorio di Comunità, i tempi toccano 389 giorni, più di un anno. Numeri che non sono semplici statistiche: sono la vita quotidiana di chi, magari, non vede più bene i propri nipoti o non può guidare per mesi.
Per le donne la situazione non è meno drammatica. Una prima visita ostetrico-ginecologica a Lanzo richiede 403 giorni. A Castellamonte e Caluso si resta abbondantemente oltre l’anno. In un’epoca in cui la prevenzione viene celebrata come un valore fondamentale, il Piemonte consente che il calendario decida la salute femminile. Una donna che oggi prenota un controllo ginecologico lo farà, nella migliore delle ipotesi, nel 2026. Non è medicina, è burocrazia che gioca con la vita delle persone.
Gli esami salvavita non sfuggono a questo incubo. A Ivrea, una colonscopia o una polipectomia endoscopica si fissano dopo 414 giorni. Più di un anno per un accertamento che può significare la differenza tra la diagnosi precoce di un tumore e la sua scoperta in fase avanzata. È come dire ai cittadini: sperate che la vostra malattia vi dia tregua, perché noi non vi daremo risposte. Sempre a Ivrea, una prima visita cardiologica in classe D (differibile) tocca i 359 giorni: quasi un anno per accorgersi che un cuore non funziona più come dovrebbe.
A Ciriè la situazione non è diversa: oltre 500 giorni per alcune ecografie. Per un’ecografia, non un intervento complesso. Un esame di routine, che altrove si fa in pochi giorni, qui si trasforma in un’attesa di un anno e mezzo. Per non parlare delle 527 giornate necessarie per un’ecografia all’ospedale di Ciriè: un numero che da solo racconta il collasso di un sistema che non riesce più neppure a garantire la diagnostica di base. A Chivasso, le visite ortopediche e dermatologiche si allungano oltre i 250-300 giorni, cancellando il senso stesso delle priorità cliniche.
Questi dati non sono inventati. Sono quelli scritti nero su bianco dall’ASL To4 nel monitoraggio di agosto 2025.
E dietro ogni cifra c’è una storia: il pensionato che aspetta un cardiologo, la madre che non riesce a programmare una visita ginecologica, il lavoratore che rinuncia a una colonscopia perché non può permettersi di aspettare un anno.
È in questo vuoto che prolifera la sanità parallela. Chi ha soldi trova subito posto nel privato, spesso nello studio dello stesso medico che nel pubblico tiene l’agenda chiusa. Chi non li ha, resta fermo nella lista, con la malattia che avanza e la paura che cresce. È una frattura sociale profonda, che divide i cittadini in due categorie: chi può pagare e chi deve arrangiarsi.
La Regione Piemonte, con il presidente Alberto Cirio e l’assessore alla Sanità Federico Riboldi, continua a sventolare i dati del “CUP unico” e delle “100.000 visite extra-orario” come un successo. Ma di fronte a un paziente che aspetta due anni per una visita oculistica, la parola “straordinario” suona come una presa in giro. Qui non c’è nulla di straordinario: c’è solo una sanità che respinge invece di accogliere.
Il tempo, quando si parla di salute, non è una variabile neutra: è vita. E nell’ASL To4 il tempo è diventato un nemico invisibile che si insinua nella quotidianità, che logora le famiglie, che costringe i malati a fare i conti non solo con la malattia, ma con un’attesa che non finisce mai. È questo il volto più amaro della sanità piemontese: un diritto alla cura trasformato in un miraggio, un privilegio concesso solo a chi può permetterselo.
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