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15 Maggio 2025 - 00:47
Ciriaco Impieri
Ciriaco Impieri ha 68 anni. Da undici vive al condominio Saudino, un nome che da solo evoca un’involontaria ironia: più che un’abitazione, un esilio. Una trappola cementificata ai margini di Ivrea, incastrata in fondo a una salita dove le anime smettono di passare e dove, a ogni passo, la solitudine si fa più fitta. Un posto in cui si sopravvive più che vivere. E dove, se hai problemi di vista, di deambulazione e d’animo, rischi davvero di spegnerti lentamente. Come sta succedendo a lui.
Avevamo raccontato la sua storia già lo scorso ottobre, pochi mesi dopo quell’agosto maledetto in cui gli avevano tolto la patente. “Non ci vedi più…”, gli avevano detto.
E con quelle quattro parole se n’era andata anche l’ultima parvenza di libertà. Oggi Ciriaco è quasi cieco. Ha subito due operazioni per un tumore al cervello. Alla prima gli si è bruciato l’occhio destro. Alla seconda gli hanno impiantato una valvola per drenare il liquido cerebrale. “Ho uno strabismo, la miopia all’occhio sinistro, vedo solo ombre”, racconta. Ma a rendergli la vita davvero impossibile è ciò che succede fuori da lui: il silenzio delle istituzioni, la sordità della burocrazia, l’indifferenza degli uomini.
Abita in un alloggio di proprietà del Comune ma gestito dall’ATC. Edifici pensati per emergenze, per brevi periodi. Dodici alloggi, perlopiù monolocali e bilocali, costruiti per anziani, ma trasformati in un micro-ghetto dove si accatastano vite interrotte. Non c’è anima viva attorno. Non ci sono negozi. Non ci sono mezzi pubblici affidabili. E anche l’ascensore, ogni tanto, si rompe, rendendo il palazzo una prigione verticale. “È come se fossi in galera. Lo Stato mi dice: stai in galera”, sussurra Ciriaco con la voce rotta.
Ciriaco è invalido al 75%, ha chiesto l’aggravamento. È stanco, spaventato. Si muove solo quando può contare sull’aiuto della sorella. Per andare a fare la spesa. Per leggere i prezzi. Per non sentirsi inutile. Ha provato a reagire. È andato in Comune. Ha parlato con l’assistente sociale. Ha scritto, chiesto, pregato. “Mi hanno detto che inoltreranno la domanda all’ATC. Nulla di più”. Nessuna promessa, nessuna speranza. Come se la burocrazia fosse un alibi, e non una responsabilità.
E quando ha provato a proporre una soluzione concreta – un alloggio più centrale, in zona San Lorenzo, vicino alla città, ai medici, agli autobus – la risposta è stata glaciale: “Non ha i requisiti”.
Ma quali requisiti può pretendere lo Stato da chi è quasi cieco, vive solo, è invalido e ha lavorato per 35 anni?
“Ho sempre pagato la Gescal, ho sempre fatto il mio dovere. E ora mi sento punito”. A Bellavista o a Torre Balfredo ci sarebbero i suoi medici. Ma come ci arriva? Senza mezzi, senza patente, senza accompagnatori? “Se fossi in centro, potrei anche prendere un autobus… invece sono prigioniero”.
Ciriaco è convinto che questa indifferenza sia anche una punizione politica. Anni fa si era candidato al consiglio comunale in una lista civica a sostegno di Stefano Sertoli. Da allora, il gelo. L’assenza. L’oblio. Ha provato a chiamare anche l’assessora Patrizia Dal Santo. “Mi ha detto che ci sono altri che hanno lo stesso problema”, riferisce.
Come se la moltiplicazione del dolore servisse a ridimensionare la sua richiesta. Come se la sofferenza fosse una statistica.
E mentre la politica si volta dall’altra parte, gli alloggi del Saudino restano lì, a metà tra l’assurdo e la vergogna. L'ex assessore Augusto Vino, nel 2013, ammise in Consiglio comunale che quel vincolo (allora in essere) per over 65 stava creando problemi su problemi. Anziani che rifiutavano gli alloggi. Appartamenti vuoti.
E nessuno che riesca a dire: forse abbiamo sbagliato tutto. Forse andrebbero affidati alla Caritas, alla Casa delle Donne, a chi sa cosa vuol dire gestire l’emergenza con dignità. E invece niente. Si chiude un occhio, o entrambi. Come se i problemi potessero sparire da soli.
Ciriaco resta lì. Con la vista che se ne va, la mente che regge a fatica, il corpo che non cammina, e l’anima che si spegne.
“Mi prende la depressione come ce l’avevo prima”, confida. Vive 24 ore su 24 chiuso in casa. Esce solo quando può. E sogna un alloggio che gli ridia la libertà, “Datemene uno in centro”, va ripetendo. Ma la risposta è sempre la stessa: silenzio.
E noi? Quanto siamo disposti a tollerare che una persona venga lasciata a spegnersi nel buio, quando basterebbe poco – un alloggio, un gesto, un sì – per restituirgli la luce?
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