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14 Maggio 2025 - 19:34
“Quando morirò mi cremeranno e mi seppelliranno qui.” Lo aveva detto con semplicità, in una delle sue ultime interviste, a dicembre del 2024. Lo disse quasi sussurrando, come si fa quando si saluta qualcuno prima di uscire di scena. Non con dolore, ma con dignità. Era ormai consapevole che il cancro all’esofago non avrebbe concesso scampo. Ma non aveva paura. Non ne aveva mai avuta.
E quel “qui” non indicava un cimitero monumentale, né un mausoleo. “Qui” era il suo angolo di mondo: il casolare di Rincón del Cerro, a pochi chilometri da Montevideo, immerso nel verde e nella polvere, dove aveva vissuto per decenni, con le mani nella terra e il cuore nella politica. Un posto semplice, quasi ruvido. Ma il posto dove ha sempre voluto tornare. Il posto dove riposa Manuela, la cagnetta a tre zampe senza razza e senza pedigree, la compagna silenziosa e fedele della sua vita spartana.
Era lei, Manuela, la sua ombra a quattro zampe. Lo seguiva ovunque. Nelle giornate di sole e sotto la pioggia, nel cortile e nelle interviste, nei giorni da presidente e in quelli da contadino. Era sopravvissuta a tutto, anche a un incidente tremendo. “Era stata aggredita da altri cani e, scappando, si era nascosta sotto il trattore che guidava Pepe. Le ha reciso quasi completamente la zampetta, rimasta attaccata solo da un tendine”, raccontò un giorno Lucía Topolansky, la moglie di Mujica, in un’intervista a una rivista per amanti degli animali. La salvarono. E da allora diventò, suo malgrado, un simbolo.
Manuela camminava su tre zampe, con l’andatura sbilenca dei miracoli, e divenne più famosa persino di quel suo Maggiolino Volkswagen scassato, che Mujica rifiutò di vendere anche davanti a offerte milionarie. Ma non era folklore. Era coerenza. Era fedeltà a sé stesso. Era la dimostrazione che si può essere potenti senza essere padroni, si può guidare un Paese senza smettere di coltivare fiori e cucinare zuppa.
E così, ora che Mujica se n’è andato, il suo ultimo desiderio è stato rispettato: le sue ceneri saranno sepolte accanto a quelle di Manuela, morta nel 2018. Sotto una pietra. In silenzio. Nessun marmo, nessuna lapide. Solo terra, affetto e memoria.
***
Montevideo intanto, oggi si è fermata. La salma dell’ex presidente è stata esposta pubblicamente nel Palazzo Legislativo. Un corteo lo ha accompagnato dal palazzo della Presidenza alla sede del Movimento di Partecipazione Popolare, fino al cuore istituzionale dell’Uruguay. La gente si è messa in fila per ore. In silenzio. Senza urla. Solo occhi lucidi e mani alzate. Un Paese intero si è stretto attorno all’uomo che ha incarnato il potere senza mai usarlo per sé.
José Mujica è morto il 13 maggio 2025. Aveva 89 anni. Da mesi lottava contro una malattia silenziosa e spietata, che lo aveva costretto a ritirarsi dalla vita pubblica. Gli ultimi giorni li ha trascorsi nella sua casa di sempre, circondato da chi lo ha amato davvero. Lucía era lì. I compagni di lotta anche. Nessuna terapia estrema. Solo cure palliative, un po’ di pace e la consapevolezza di aver detto tutto quello che c’era da dire.
E ne aveva dette tante, Mujica. Parole che restano. Perché erano vere. Perché erano sue. “Non sono povero, sono sobrio”, diceva. “I poveri sono quelli che hanno bisogno di troppo.” Pochi fronzoli, molta sostanza. Nel 2012, davanti all’Assemblea dell’ONU a Rio, durante la conferenza sullo sviluppo sostenibile, scosse il mondo con un discorso semplice e devastante: “O ci salviamo insieme, o affondiamo da soli.” Nessuna ideologia, nessun tecnicismo. Solo realtà.
Era stato tutto, Mujica: ragazzo ribelle, guerrigliero dei Tupamaros, prigioniero politico per quattordici anni, presidente dal 2010 al 2015, simbolo globale della sinistra più umana. Durante la dittatura militare fu torturato, isolato, dimenticato. Ma sopravvisse. Senza rancore, senza vendetta. E tornò. A testa alta.
E da presidente, fece quello che nessuno si aspettava: rifiutò lo stipendio, devolvendo il 90% ai poveri. Rifiutò il palazzo presidenziale, scegliendo di dormire nel suo letto umido di sempre. Rifiutò le scorte, le limousine, i privilegi. E nel frattempo legalizzò la cannabis, approvò il matrimonio egualitario, favorì i diritti all’aborto, ridusse la povertà. Ma soprattutto, disse la verità.
Non parlava bene l’inglese, non faceva selfie, non postava. Ma quando entrava in una stanza, la gente si zittiva. Lo ascoltavano i potenti della Terra, lo adoravano i giovani, lo rispettavano persino gli avversari. Era impossibile non volergli bene.
E oggi, mentre i leader del continente – da Boric a Petro, da Morales a Lula, fino al premier spagnolo Pedro Sánchez– scrivono parole di cordoglio e omaggio, l’Uruguay torna alle sue radici. A quel campo, a quel casolare, a quella pietra.
Niente statue, niente mausolei. Solo una roccia e due anime. Quella di un uomo che non ha mai smesso di credere nella bontà possibile della politica. E quella di una cagnolina zoppa che gli stava sempre accanto, con lo stesso sguardo di chi sa tutto e non ha bisogno di dire nulla.
E in quell’angolo di mondo, dove i pomodori crescono storti e le notti sanno di terra, riposa ora Pepe Mujica. Non nei libri di storia, ma nella memoria viva di chi sogna una società più giusta. Di chi ancora pensa che la sobrietà sia una forma di rivoluzione. Di chi non dimentica che la grandezza, a volte, abita nei gesti più piccoli.
Sotto quella roccia, adesso, c’è l’Uruguay migliore. E accanto a lui, come sempre, Manuela.
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