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L'Unione fa la forza

Trump torna e l’America affonda: armi, migranti e follie imperiali

Il 47° presidente degli Stati Uniti si insedia con una visione polarizzante: militarismo, espansioni territoriali e un capitalismo senza freni. Nel vecchio continente, il rischio di applaudire al declino

Trump torna e l’America affonda: armi, migranti e follie imperiali

TRUMP

FORSE IL 47° PRESIDENTE DGLI STATI UNITI NON RIUSCIRA’ A METTERE IN PRATICA TUTTO CIÒ CHE SPERA DI REALIZZARE, MA FARA’ CENTO, MILLE E ALTRI MILLE DANNI…….. SPERIAMO CHE NEL VECCHIO CONTINENTE QUALCUNO SE NE ACCORGA PRIMA.
E che dire…. Pensare che quando ero un giovane appena maggiorenne dopo essere andato ben due volte negli USA a trovare il mio “Zio d’America” mi ero praticamente innamorato di quel Paese, per poi ricredermi negli anni leggendone la storia e le grandi contraddizioni che lo distinguevano dalla vecchia e malconcia Europa….
Ed ecco riaffacciarsi al mondo nient’altro che un pregiudicato alla guida di quel Paese….

Venti minuti circa di discorso, dopo una cerimonia di insediamento e giuramento con alle spalle quello che lui giudica il nemico giurato (il Presidente uscente). In realtà, se si confrontassero davvero sulla guerra, sulle spese per il riarmo e per le forniture all’esercito, sulla politica internazionale e su alcuni altri aspetti non trascurabili della vita della grande Repubblica stellata, si scoprirebbero poi nemmeno così lontani l’uno dall’altro. Ma, obiettivamente, se si parla di altro rispetto alla macroeconomia e al fattore imperiale, differenze ve ne sono.

Si tratta pur sempre di quei diritti sociali, civili e di una moralità culturale (o anche di una cultura morale) che non contraddicono, nella loro affermazione da parte delle forze democratiche, un sistema capitalistico tutt’altro che messo in discussione. Ma, anzi, riaffermato con vigore da un bidenismo che rientra, seppure un po’ claudicantemente, nei margini costituzionali di un’America che volevasi multilaterale, mentre Trump detesta questo approccio e preferisce il bilateralismo: con Meloni, con Putin, con l’internazionale nera che da ieri si è insediata (nuovamente) alla Casa Bianca.

CON MELONI

Poi mi viene quasi da ridere per non piangere, quando da convinto comunista quale sono vedo che i politicamente nerissimi conservatori che hanno oltrepassato ogni vecchio argine del Partito repubblicano, siedersi alla White House con cravatte rosse smaglianti addosso. Il colore del progressismo europeo al di là dell’Atlantico è quello dell’antiprogressismo più cieco e rigidamente applicato nel nuovo teoricismo di una “età dell’oro“, di un’America che abbandona la corruttela democratica in ogni ambito possibilmente immaginabile. Il magnate promette tutto quello che la sua agenda di campagna elettorale gli ha detto e fatto promettere.

La cacciata di milioni di migranti, il presidio armato delle frontiere, l’aumento dei dazi per Canada e Messico (tanto per cominciare), la riscrittura degli atlanti geografici per quanto riguarda il Golfo che sarà “d’America” e anche una ritoccatina a quelli storici perché il canale di Panama dovrà tornare, come ad inizio Novecento, sotto il controllo statunitense, sottraendolo così alla Cina. La vera contendente di un primato unipolare che, almeno ad oggi, è difficile pensare se non su lunghezze temporali non predefinibili: la realtà multipolare è sotto gli occhi di tutti.

Ma Trump promette qualunque cosa possa vellicare la peggiore istintività pulsante dell’americano medio che ha bisogno di una rassicurazione a tutto tondo: via i migranti, l’esercito più potente del mondo, basta con il complotto del “gender fluid” e dall’identità di genere si ritorna a quella di sesso. L’ordine agli uffici federali è già stato dato: uno dei cento che ha emanato come provvedimenti immediati da applicare per dimostrare che lui sì tiene fede alle promesse elettorali e al programma che ha presentato all’America.

Alla Groenlandia e al Canada, da unire sotto la bandiera a stelle e strisce. Adesso la nuova presidenza va alla conquista del mondo terrestre proiettando la grande cosmonautica visione dell’extraterrismo fino a Marte: lì sarà piantata la seconda bandiera interplanetaria. Dopo la Luna, il pianeta rosso. Come il colore repubblicano. Elon Musksorride come un bimbo a cui è stato riconosciuto il premio, il balocco più gradito. Son fiumane di dollaroni sonanti che si aggiungono all’immensa fortuna del tecnomagnate.

Intorno a lui tutti gli altri paperonissimi yankee: il controllo dell’economia è un dato capitalisticamente di fatto. Ascolta, applaude, sorride, si compiace. Fuori, al freddo dei meno dieci o qualcosa di simile di una Washington attonita e inebetita (almeno per una buona metà della sua popolazione), sta la grande massa dei suoi sostenitori. Si beano di una schiavitù moderna che regala loro un senso di sicurezza in un mondo destabilizzato dalle guerre che proseguono le politiche liberiste su vastissima scala, accompagnandosi ad un militarismo di nuovo corso che impone sé stesso come garante dell’ordine.

Qualcuno, almeno tra gli economisti meno asserviti a questa caterva di ladri impenitenti, osa affermare che, più dell’età dell’oro, sia invece iniziata una vera e propria era del declino e che il governo di Trump, Vance e Musk sia lì per gestire meno dolorosamente possibile il tutto.
Biden, Harris e gli altri democratici, dal basso del loro fallimento come forza pseudo-progressista, possono vantare solamente di aver frenato per quattro anni un pericolo che si gioverà, tuttavia, di ogni singolo passo fatto verso quelle guerre e quegli espansionismi imperialisti e militari che, dall’Ucraina al Medio Oriente (per non parlare dell’Asia e della situazione di Taiwan o della Corea), hanno incentivato un dimagrimento strutturale di una economia che poteva essere, anche molto parzialmente, messa a disposizione di riforme sociali. Invece di queste non se ne trova traccia alcuna.

TRUMP

TRUMP

Tanto che fa un po’ amaramente sorridere la pretesa trumpiana di aumentare ancora le spese militari: sono già il 13% della spesa pubblica, circa ottocento miliardi e mezzo di dollari annui… Un governo progressista avrebbe dovuto diminuirla a favore di un massiccio intervento sociale. Ed invece, niente di niente. Biden e Harris, fintamente progressisti, non pagano soltanto l’insufficienza democratica nella proposta di un vero candidato alternativo al miliardario dal ciuffo tintamente pronunciato. Pagano, anzitutto, una ambiguità di fondo in cui la destra estrema si è inserita.

Negli Stati Uniti d’America come in Europa. La grande assente nel discorso di Trump. Non se ne fa minimamente cenno; forse se ne può molto vagamente ritrovare una piccolissima traccia quando il presidentissimo si riferisce alle risorse che i singoli paesi appartenenti all’Alleanza atlantica dovrebbero versare alla stessa ogni anno. Lui le vuole portare ben oltre quel 2% cui ha fatto riferimento Mark Rutte anche recentemente: tre punti in più. Varrebbe a dire, almeno per l’Italia, più che duplicare il ventiquattro e passa miliardi di dollari che vengono versati nelle casse della NATO.

Una prospettiva di grande successo: armi, armi, armi, in cambio di un neoservaggio spacciato per grande alleanza bilaterale da Giorgia Meloni che, unica tra i capi di governo dell’Unione europea ad essere presente al giuramento trumpiano, può vantare così una proconsolarità presso la Commissione von der Leyen e un ius primae noctis con una presidenza statunitense lieta di avere un rapporto privilegiato con un alleato certamente di estrema destra ma anche resiliente rispetto alla stretta attualità delle contingenze. Insomma: dio, patria, famiglia e liberismo a tutto spiano.

Ecco che, guarda caso, si sperticano in applausi le mani dei signori della Silicon Valley che ieri stavano dietro a Biden e Harris e oggi si situano nel campo che vince. Non c’è principio, idea, pensiero, volontà politica: ma solo spietato interesse capitalistico. Così va il liberismo nella Repubblica stellata e nel mondo. Il trumpismo proverà ad individuare i punti su cui far poggiare saldamente un equilibrio parziale in relazione ad una serie di altri equilibri, multipolarmente distribuiti in tutti i continenti. Le guerre, almeno fino ad oggi (e non c’è, purtroppo, ragione concreta per avere un qualche tipo di tema di smentita nel merito…), sono servite a questo.

L’amicizia con Putin può ben presto incrinarsi se la risoluzione del conflitto in Ucraina dovesse prendere una piega diversa da quella annunciata. Ma, se con la Russia c’è un margine di trattativa in alcuni ambiti di primario interesse internazionale, con la Cina l’orizzonte è del tutto conflittuale. Pur nel multipolarismo conclamato di questi ultimi decenni, gli Stati Uniti d’America rimangono uno degli assi portanti per molti altri Stati che sono indipendenti sulla carta ma che, energeticamente e per altri bisogni di natura assolutamente primaria, dipendono da Washington.

Mentre ci distraiamo a considerare un atto violentemente vile, assolutamente insulso e forse esacerbato dall’uso della ketamina o, più semplicemente dalla più vuota banalità della puerilità politica del male, come il saluto neonazista dell’uomo più ricco del mondo nel giorno della consacrazione del “Salvato da Dio” (dall’attentato del 13 luglio dello scorso anno), in Asia si spalancano le porte a scenari quasi completamente inediti con la nuova presidenza Trump.

TRUMP

Non termina un ciclo di espansione, ma si rinnovano semmai i pregressi prodromi di un imperialismo, questo sì, multilaterale. Mosca e Pechino non rimarranno a guardare un mondo in cui gli Stati Uniti possono prendere nuovamente le redini di un unipolarismo congenito alla loro struttura iperliberista. Missione divina, marziana o terrestre che sia, il trumpismo si mostra per quello che è: la politica più conservatrice in termini tanto (anti)sociali quanto (in)civili spalmata sulla prospettiva di medio termine di una riconsiderazione degli USA come prima potenza mondiale.

La contesa si farebbe persino interessante se si trattasse di assistere ad una finzione cinematografico-seriale. Invece è la triste realtà dell’inizio di questo 2025. L’internazionale nera avanza, i mostri nascono dal chiaroscuro delle ombre e di flebili luci in cui – come scriveva Gramsci – il vecchio mondo non muore e quello nuovo non nasce e lascia il posto a parvenze di novità che sono già state viste e vissute. In altri tempi, in altre forme, con altre parole d’ordine.

Ma la predestinazione divina dell’essere scampato all’attentato del 13 luglio, ricorda le parole di Hitler la sera di un 20 luglio del 1944 quando, alla radio, si rivolse al popolo tedesco per annunciare che era vivo nonostante la bomba piazzata alla Tana del Lupo dal colonnello Stauffenberg.

Se di questo ha bisogno oggi il capitalismo liberista, vuol dire che la sua disperazione esistenziale è tanta. Ma vuole anche dire che, pur nelle contraddizioni insanabili che vive (e ci fa subire), ha un potenziale ancora da esprimere: contro i moderni sfruttati e per un “si salvi chi può” innanzi alla grande crisi ambientale negata.

Forse non riusciranno a mettere in pratica tutto ciò che sperano di realizzare, ma faranno cento, mille e altri mille danni…….. Speriamo che nel vecchio continente qualcuno se ne accorga prima.

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