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Esteri
01 Dicembre 2025 - 19:07
L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della NATO.
I notiziari e la maggior parte delle testate giornalistiche italiane oggi parlano di un passo avanti visibile nei colloqui di Miami e Florida tra Stati Uniti e Ucraina: aperture reali, toni diretti, segnali di convergenza, ma con un’intesa finale che resta ancora da costruire. Sembra un lessico studiato a tavolino per rassicurare: i colloqui a Miami e in Florida tra la delegazione americana e quella ucraina avrebbero mosso passi in avanti, pur non chiudendo la partita. Il segretario di Stato americano li ha descritti così: “Sono stati produttivi, ma c’è ancora lavoro da fare”. Persino Rustem Umerov, guida della delegazione ucraina, ha calcato ancora di più questa definizione, parlando di un vero “successo”. In una dinamica che somiglia più a un paziente lavoro diplomatico che a un’improvvisa accelerazione, Vladimir Zelenskij ha voluto spendere parole di riconoscenza per il team statunitense: “Vi ringrazio per il tempo impiegato”, ha dichiarato, sottolineando un clima di cooperazione ritrovata. Anche Donald Trump, intercettato a margine dell’incontro in Florida, ha fatto trapelare un messaggio di possibilità concrete: “Ci sono buone chance per arrivare a un accordo di pace”, definendo le trattative “toste, ma molto costruttive”. Un dialogo duro, denso di revisioni, ma con un esito potenziale ancora aperto.
Mentre lettori e telespettatori ricevono il “trailer” di un possibile cessate il fuoco, la diplomazia americana si muove già altrove. Steve Witkoff, inviato personale di Trump, è in viaggio verso Mosca: domani incontrerà Vladimir Putin. Non un dettaglio secondario, ma il sintomo di un negoziato a più livelli che ormai bypassa molte capitali europee, portando la trattativa nel cuore delle relazioni dirette tra Casa Bianca e Cremlino. Ed è qui che si apre, nelle stesse ore, il capitolo che straborda dalla narrazione ottimistica: la NATO, secondo quanto rilancia Adnkronos citando il Financial Times, sta valutando di cambiare il proprio paradigma nel dominio cyber e ibrido, passando da un approccio reattivo a uno più proattivo. L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare NATO, ha detto chiaramente: “Stiamo analizzando tutto… Sul fronte informatico siamo in un certo senso reattivi. Essere più aggressivi o proattivi invece che reattivi è qualcosa a cui stiamo pensando”. Una riflessione dottrinale che include persino l’ipotesi teorica del pre-emptive strike, ossia colpire per prima, pur definita “più lontana dal nostro normale modo di pensare e di comportarci”. Dragone riconosce i confini del possibile: “È un’opzione, ma le questioni restano il quadro giuridico, il quadro giurisdizionale, chi lo farà?”. Viene quasi il sospetto che l’Occidente stia adottando le stesse tecniche retoriche e ibride che per anni ha denunciato come firma operativa del Cremlino, ma la coerenza è lasciata al caso, parrebbe.
Mosca non ha aspettato un secondo per reagire. Per la portavoce degli Esteri Marija Zacharova, via RIA Novosti, questa apertura al lessico della proattività NATO rappresenta “un passo estremamente irresponsabile, che indica la disponibilità dell’Alleanza di procedere verso l’escalation”, un’azione percepita da Mosca come orientata a “indebolire deliberatamente gli sforzi per risolvere la crisi ucraina”. Zacharova accusa i vertici NATO di parlare di “attacchi ibridi senza alcuna prova del coinvolgimento russo”, sostenendo che il dibattito stesso sul cyber contrattacco sconfesserebbe il “mito della natura puramente difensiva dell’Alleanza”. Le sue parole finali sono un atto d’accusa all’Occidente emotivo, più che tecnico: “Infiammano seriamente lo scontro tra Russia e NATO, sullo sfondo dell’isteria anti-russa fomentata dall’Alleanza e del terrorismo psicologico per l’‘imminente attacco’ ai Paesi membri del blocco”. Una dichiarazione che sottolinea la profondità del confronto ibrido già in atto, seppur letta da prospettive opposte.
La cronaca della giornata, però, non è tutta qui. Il contesto europeo aggiunge strati che nessun titolo può riassumere davvero, ma che meritano di essere intrecciati qui e ora perché spiegano la vera posta in gioco. La guerra in Ucraina - che in Occidente si tende erroneamente a incorniciare a partire dal 2022 - nel Donbass si combatte dal 2014, quando inizia un conflitto tra forze separatiste sostenute da Mosca e l’esercito di Kiev. L’ONU stima fra 14.200 e 14.400 morti, di cui 3.404 civili entro l’inizio del 2022. Non un prologo remoto: il terreno sanguinante su cui poggia l’intera narrativa di “denazificazione” e “genocidio” brandita per anni dal Cremlino come cornice morale per un intervento “necessario”. Cornici linguistiche che la Corte Internazionale di Giustizia non ha mai riconosciuto come giustificazione legale per l’invasione del 2022, pur lasciando aperti dossier su possibili crimini di guerra, torture, deportazioni e bombardamenti indiscriminati da entrambi i lati della linea del fronte. La realtà, quindi, impone di distinguere abuso narrativo delle parole da ricostruzione storica dei fatti, senza indulgere alla riscrittura.
E mentre le armi si fanno sentire, anche i bilanci parlano. L’Unione Europea finanzia forniture letali a Kiev tramite l’European Peace Facility, strumento volutamente collocato fuori dal bilancio ordinario. Bruxelles ha discusso un maxi piano di procurement e riarmo collettivo, ReArm Europe, per un totale di 800 miliardi in quattro anni, il più imponente sforzo di spesa militare dal 1945. In nome dell’aiuto all’aggredito, l’Europa ha riattivato una propria economia di guerra materiale, energetica, industriale, pur rimanendo non-belligerante solo nei comunicati ufficiali.
Gli shock economici non sono un danno collaterale: sono il sintomo. Prima del 2022, l’Italia importava circa il 40% del gas dalla Russia; nel 2022 quella quota crolla al 19%, rapidamente rimpiazzata da fornitori come Algeria, Azerbaigian e GNL via nave. La BCE parla esplicitamente di e “terms-of-trade shock energetico provocato dalla guerra in Ucraina”, con i prezzi del gas decuplicati rispetto ai livelli pre-pandemia, inflazione importata, potere d’acquisto eroso e investimenti frenati. Secondo l’EPRS (European Parliament Research Service), la crescita europea 2022-2023 risulta inferiore di quasi tre punti di PIL rispetto allo scenario senza conflitto, mentre l’Italia si assesta su stime minime: +0,7% nel 2023 e 2024, un rallentamento definito da Banca d’Italia come “necessità forzata di riconfigurazione delle rotte energetiche e commerciali”.
La Germania, motore industriale dell’UE, registra un crollo del 95% delle importazioni da Mosca e del 72% delle esportazioni verso la Russia tra il 2021 e il 2024, numeri che sono indicatori da manuale di guerra economica reciproca. Nel perimetro italiano restano inoltre 2,3 miliardi di beni congelati legati a oligarchi russi, asset bloccati, gestiti, contesi in lunghi contenziosi legali, con costi che ricadono sul perimetro pubblico.
In parallelo, il secondo fronte, quello dell’informazione, ha vissuto un processo di irrigidimento altrettanto significativo. Nel 2022 il Center for Countering Disinformation ucraino ha diffuso un elenco di personalità accusate di propagare narrazioni filo-russe, una lista priva di valore penale, ma percepita da molti osservatori europei come una blacklist intimidatoria nel dominio informativo. Nello stesso giro di mesi, l’UE ha sospeso emittenti legate al Cremlino, tra cui Russia Today in alcune lingue, RIA Novosti, Izvestia e il sito Voice of Europe, scelta giustificata da Bruxelles con il contrasto alla ”propaganda bellica russa”. La dottrina dell’“information war” - studiata da RAND e dal NATO Stratcom Centre of Excellence - è così entrata nei linguaggi mainstream, restringendo progressivamente il campo delle voci ammesse nello spazio pubblico europeo.
Come se non bastasse, la fragilità del quadro non riguarda solo il Cremlino. A fine novembre 2025, l’uomo chiave delle trattative per Kiev, Andrij Yermak, capo di gabinetto di Zelenskij, si è dimesso dopo perquisizioni condotte dalla NABU nell’ambito di Operazione Midas, un’indagine su un presunto sistema di tangenti legato a Energoatom, la compagnia nucleare statale ucraina. Yermak non è formalmente indagato, ma la sua uscita di scena viene letta, soprattutto da Reuters e Associated Press, come il segnale che la spinta anticorruzione e la pressione internazionale siano arrivate fino al cuore della presidenza ucraina.
Quasi in contemporanea, l’Anti-Corruption Action Center di Kiev ha diffuso un dossier sostenendo che la famiglia di Rustem Umerov sia collegata a otto proprietà di lusso negli Stati Uniti, tra appartamenti in Florida e New York e ville nei dintorni di Miami, di cui solo una dichiarata ufficialmente. L’entourage del ministro ha smentito, spiegando che la famiglia affitterebbe un solo appartamento, mentre gli altri immobili sarebbero intestati a parenti che li pagano con risorse proprie. Un episodio che svela la crepa comunicativa più profonda: il contrasto tra i sacrifici al fronte e il tenore di vita delle élite, un tema che ormai serpeggia nelle cronache europee e nei media internazionali, molto più che nei tg nazionali italiani.
Giuridicamente, l’Italia e l’UE non sono paesi belligeranti: nessuna dichiarazione di guerra, nessun soldato europeo schierato ufficialmente in prima linea. Ma nella sostanza, e questo lo dicono report, dottrine, numeri e scelte strategiche, l’Europa è immersa in una cobelligeranza materiale indiretta. Invia armi letali, condivide intelligence, impone sanzioni che ridisegnano l’economia del continente, cambia le rotte del gas, ricostruisce arsenali e, proprio oggi, discute una postura più assertiva nel dominio ibrido. Non coordina un piano “occulto”, ma finisce per validare compromessi elaborati altrove - Washington, Mosca - in suo nome, subendo intanto un confronto ibrido che si inasprisce a prescindere dalla pace sulla carta.
Ed è questo l’ossimoro che attraversa l’intera giornata informativa: al tavolo si parla di pace, nelle dottrine si lavora già al contrattacco ibrido. La NATO lo riconosce sottovoce, Mosca lo contesta gridandolo sui media di Stato, l’Europa lo paga senza raccontarlo al proprio pubblico. Una guerra non lineare, fatta di reti, infrastrutture, cieli sorvegliati da droni navali nel Baltico, bilanci stravolti dal costo dell’energia, scelte editoriali amico/nemico degne di una guerra dell’informazione, mentre la pace resta una bozza in continua limatura.
La “follia” di oggi non è che qualcuno ipotizzi un asse USA-Russia destabilizzante,ma l’illusione di poter raccontare il mondo con formule addomesticate per il talk show. Il rischio vero, e più insidioso, è credere che il conflitto resti altrove, quando il fronte ibrido ha già messo radici in Europa, modificandone difesa, economia e informazione. Parlare di deterrenza proattiva, come fa l’ammiraglio Cavo Dragone, è lettura strategica. Ma pensare che l’UE non stia già pagando il costo di una partita bellica indiretta significa accettare il mito rassicurante e non il peso reale dei fatti.
L’Europa si proclama spettatrice, ma intanto il conflitto ibrido la riscrive. Non servono dichiarazioni di guerra perché gli effetti siano quelli di un fronte aperto: le reti sotto attacco, i cieli sorvegliati, il mercato energetico stravolto, gli arsenali ricalibrati altrove e ratificati in suo nome. La guerra ibrida non “trascina” l’Ue: la plasma dall’interno, lentamente ma irreversibilmente, tra bollette che si gonfiano, scambi commerciali spezzati, regole dell’informazione che si restringono, catene industriali che si riconvertono. Kiev riceve gli aiuti, Bruxelles ne assorbe gli scossoni, e nel mezzo restano i cittadini europei: coinvolti nei fatti, esclusi dal racconto completo.
La pace sarà forse firmata a Mosca o a Ginevra, ma la guerra ibrida, quella sì, l’abbiamo già ratificata a Bruxelles senza titoli folli. Non ci chiede se vogliamo farne parte: è già il nostro clima operativo.
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