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Torino
12 Novembre 2024 - 00:10
Quando ti rivedi nella splendida staffetta di Tokyo, che ricordi hai?
“Vedendomi potrei parlare di quanto un atleta si debba sacrificare, di quanto allenamento, di quanta tecnica, di quanta preparazione ci sia dietro ogni momento di ogni gara. Proprio riguardando le immagini che sono state ora mostrate, ho pensato a tutte le ore passate con i miei allenatori. Eppure, quando rivedo il video della vittoria nella staffetta all’Olimpiade di Tokyo, ciò che più mi emoziona è il frammento di un’immagine: quando sono arrivato al traguardo e ho abbracciato Fausto, il mio compagno di staffetta. Sì, proprio quello è il momento che più mi emoziona. E mi sto emozionando anche in questo momento nel ricordarlo. Perché in quell’abbraccio c’è il significato di ciò che per me è lo sport”.
Come ti relazioni con il motto l’importante è partecipare?
“Ho sempre detestato il motto l’importante non è vincere ma partecipare: lo considero da perdenti, io vado a gareggiare per vincere. Eppure durante l’Olimpiade, l’ultima quella di Parigi, vivendo prima una grossa delusione nella mia gara individuale, ho capito che la cosa importante era stato dare tutto me stesso per essere lì, in quel momento, a correre: aver condiviso un percorso con persone che sono diventate una famiglia. Certamente mio padre, che è anche il mio allenatore, i miei compagni, i fisioterapisti. Ho capito che l’importante non era tagliare il traguardo per primo, ma essere consapevole di aver fatto tutto il possibile per arrivare proprio lì, in quel momento. Questa consapevolezza mi ha permesso di cambiare come persona e, di conseguenza, come atleta e anche di correre più veloce di quanto non avessi mai fatto. Ma c’è anche la sofferenza quando perdi e proprio nell’esperienza della sconfitta riesci a comprendere chi sei e chi puoi essere. Questo mi ha insegnato l’Olimpiade”.
Tempo fa hai usato un’espressione che mi ha fatto pensare parlando della figura dell’allenatore. L’hai descritto molto bene: l’allenatore vede sempre più lontano. Come vivi il tuo rapporto con l’allenatore e come interpreti questa figura così fondamentale per un atleta?
Il comico Davide D'Urso e il giornalista Alberto Dolfin che dialogano con Filippo Tortu
“Il mio allenatore è mio padre. Per raccontare il nostro rapporto ricorro a quanto ho imparato a catechismo: la questione sta proprio nella libertà di sbagliare. Dio ti mette sempre di fronte alla possibilità di scegliere e mio padre ha fatto lo stesso con me. Avere l’allenatore in casa può essere complicato: se una sera torni tardi lui dovrebbe sgridarti. Mio padre, invece, mi ha sempre dato la possibilità di scegliere liberamente, come a dire “questa è la strada se vuoi fare l’atleta, ma scegli tu”. Mi sono detto: sono libero di fare quello che voglio ma non voglio sbagliare. Ma il merito è suo: oltre a essere un buon padre è un ottimo allenatore. Abbiamo un rapporto basato sul dialogo: decide l’allenatore che, però, vuole sempre sapere la mia opinione su quello che stiamo facendo. Penso anche che sappia già le mie risposte... Insieme a mio padre c’è un’altra persona che si occupa, in particolare, della fisioterapia. Da quando ero piccolo ho sofferto la mancanza della figura del nonno e così vedo questo mio tecnico come il nonno acquisito. È importante andare ogni giorno ad allenarmi sapendo, dentro di me, di avere i due migliori allenatori del mondo. Meglio, per me è importante sapere di trovare due persone capaci di farmi stare bene. Credo sia l’aspetto più importante nel rapporto tra allenatore e atleta”.
La tua specialità di corsa è una disciplina individuale, però c’è anche la staffetta?
“L’atletica è uno sport individuale, effettivamente tu corri da solo. Ma in realtà, nel momento in cui tu scendi in pista e sei dietro i blocchi, rappresenti anche la sintesi di un lavoro che coinvolge tantissime persone capaci di metterti nelle migliori condizioni possibili per arrivare al meglio alla gara. Se sbagli la corsa vanifichi un grande lavoro di squadra. È una responsabilità che sento e mi aiuta a dare il meglio di me. Del resto, quando ti devi sacrificare anche per qualcun altro riesci a fare... “qualcosina” in più. Per questo abbiamo vinto la staffetta all’Olimpiade. La somma dei nostri quattro tempi era peggiore a quella di altre squadre. Però eravamo convinti di poter vincere e, soprattutto, volevamo vincere come gruppo. Come squadra. Questo ha fatto la differenza”.
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