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SETTIMO. Autocelebrazioni

Certo non si potrà, se non si fa come al solito – cioè si nascondono i fatti scomodi con la consegna del silenzio – celebrare il sessantesimo compleanno di questa città, guardandosi allo specchio per dirsi che, tutto sommato, siamo cambiati in meglio. Che l’età – cioè la maturità – ci giova, che – con le rughe – è arrivata anche la saggezza, che il peggio di noi ce lo siamo lasciato alle spalle. Molto probabilmente la politica farà in modo che passi sotto silenzio la scomoda lettura che è stata data di noi come comunità da un terzo incomodo, un autorevole giornalista la cui cifra distintiva sono la vis polemica e la durezza verbale. Complici i media locali e la pletora delle associazioni che – mi spiace doverlo evidenziare – preferiscono allinearsi alla vulgata anziché esercitare quel minimo di critica che, poi, è il cosiddetto sale della democrazia.

«Todos caballeros», si direbbe, ma è proprio così? In un eccesso di conformismo, si sono promossi cittadini dal cursus onorum più che risibile ad esempi da additare ai posteri: capitani d’industria, neanche settimesi, ai quali si è intitolata una via, chissà perché; maestre il cui unico merito è quello di aver tenuto a balia molte leve di «buoni cittadini»; peggio ancora è il caso di un ufficiale medico divenuto podestà con il fascismo ai quali in tempi di Repubblica e Costituzione è stato riconosciuto l’onore di una piazza, solo perché «vero» settimese; sindacalisti senza due righe di curriculum, fino ad arrivare agli architetti – più o meno blasonati – a cui non si è negato un cenno nella toponomastica. Cos’è questo, se non il bisogno di una comunità, ovvero della sua rappresentanza politica, di riscrivere, in senso più che moderato, la propria storia?

Settimo allora non è più la città-fabbrica, la più importante piattaforma industriale del nord-ovest, il maggior distretto europeo della penna, la città che si è triplicata per abitanti nei decenni Cinquanta e Sessanta, quella dei doppi turni nelle scuole e delle «150 ore» per consentire a molti di ottenere la licenza media, che ha espresso l’aristocrazia operaia della Farmitalia, la combattività degli operai della Pirelli e della Ceat e gli snodi cruciali della chiusura delle Acciaierie Ferrero, della fonderia Lucchini, della quale sopravvive tuttora lo scheletro, e della Standa, presto sostituita da un monumento alla rendita fondiaria.

Oggi, alla sofferenza e al disagio sociale (termini del tutto scomparsi dal lessico politico) Settimo sembra non dare risposte, con buona pace del presidente della Fondazione che, quasi come un novello Virgilio, si mette a disposizione per mostrare all’incauto giornalista – ma per fortuna troppo coriaceo per farsi imbonire - la vera città, con le sue eccellenze, tra le quali non dimenticherà di annoverare il Befed.

La morale? L’indimenticabile Celestina Adornato, che per rispetto agli anni di reclusione manicomiale poteva disturbare indistintamente il sindaco, il comandante dei vigili urbani e la forza pubblica, facendosi beffe delle autorità, magari apostrofandole con un «Tuppe, tuppe marescià», non abita più qui.

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