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Cronaca

Il Canavese piange Mauro Revello Chion: il giornalismo perde una delle sue voci più vere

Un malore improvviso porta via lo storico cronista canavesano a una settimana dal suo 60° compleanno. Dalle prime redazioni locali a La Stampa, il ricordo di un uomo che ha saputo raccontare il mondo con schiettezza, ironia e umanità

Il Canavese piange Mauro Revello Chion: il giornalismo perde una delle sue voci più vere

Il Canavese piange Mauro Revello Chion: il giornalismo perde una delle sue voci più vere

La notizia corre veloce, attraversa Ivrea e il Canavese come una fitta improvvisa: se n’è andato improvvisamente Mauro Revello Chion, storico giornalista che avrebbe compiuto 60 anni la prossima settimana. Un malore lo ha colpito nella tranquillità della sua casa, in una domenica che sarebbe dovuta scivolare via come tante, tra musica, letture e quell’ironia che non lo aveva mai abbandonato. Una domenica qualunque, una di quelle che non lasciano traccia, e che invece si è trasformata nel giorno che nessuno avrebbe mai voluto vivere.

La sua storia professionale nasce a Chiaverano, il paese dove era cresciuto e che portava sempre nel cuore. È lì, tra le colline che guardano Ivrea e i vicoli dove la voce della comunità arriva sempre diretta, che aveva assorbito la passione per le parole e per i territori. Cominciò a muovere i primi passi da cronista negli anni Novanta tra le pagine de Il Risveglio Popolare e de Il Canavese.

"Erano anni di redazioni piccole ma vive - ricordano i colleghi - , affollate di persone che credevano davvero che ogni storia meritasse rispetto. In quei luoghi che odoravano ancora d’inchiostro e di caffè, tra telefoni che squillavano senza tregua e bloc-notes consumati in tasca, Mauro imparava il mestiere: ascoltare, capire, raccontare. Senza sconti e senza vanità...".

Poi arrivò la collaborazione con La Stampa, e con essa la conferma di ciò che molti avevano già intuito: il nome di Mauro cominciava a essere sinonimo di affidabilità. Da Ivrea seguiva tutto. Le cronache giudiziarie complicate, per le quali servivano attenzione e sensibilità. I pezzi di sociale, quelli che chiedono un occhio diverso, capace di cogliere fragilità e dignità. Le vicende dell’Olivetti, che ancora agitavano i cittadini. E le storie minori, quelle che tanti snobbano ma che lui trasformava con piccole dosi d’umanità, restituendo voce a chi di solito non ce l’ha.

"Era preciso, rapido, instancabile. Sempre pronto ad arrivare dove serviva, anche quando bisognava correre, letteralmente, per consegnare quel rullino “fuori sacco” da affidare all’autista del giornale che lo aspettava davanti al Bar Chicco. Era un giornalismo fatto di tempi stretti, intuizioni improvvise e corse contro il buio, un giornalismo che Mauro conosceva come pochi e che sapeva maneggiare con naturalezza...".

Nel 2004 lasciò Ivrea per la redazione valdostana de La Stampa: un passaggio importante, che lo mise di fronte a nuove sfide, nuovi equilibri, nuovi racconti. Poi, nel 2010, l’approdo a Biella, città dove negli ultimi anni aveva trovato la sua dimensione più matura.

"Qui si era dedicato soprattutto a cultura e spettacolo, due mondi che gli appartenevano più di quanto dicesse. La sua scrittura — asciutta ma intensa, schietta e mai compiaciuta — si era fatta ancora più limpida, più definita. Nel suo ufficio, dietro la scrivania, teneva una fotografia che era quasi un manifesto: lui accanto a Gorbaciov durante una visita a Torre Canavese. La conservava come si conserva un testimone di ciò che siamo stati e di ciò che vogliamo continuare a essere: curiosi, attenti, pronti a osservare il mondo senza paura...".

Chi l’ha conosciuto ricorda un uomo capace di battute fulminanti e di profondità improvvise. Aveva un modo tutto suo di stare in redazione: una presenza che sapeva trasformare anche l’ora più tesa in un momento di condivisione e risate. Si schermiva, faceva finta di non essere mai troppo serio, ma chi lo frequentava davvero sapeva benissimo che dietro quella leggerezza si nascondeva una passione feroce per la verità dei fatti. Non amava le scorciatoie, e non le insegnava. Non alzava mai la voce, ma era capace di farsi capire come pochi.

Fuori dalle redazioni, Mauro era tante altre cose. Un innamorato viscerale della musica: suonava, ascoltava, cercava. La trattava con lo stesso rispetto che aveva per le parole. E poi il Torino, la sua fede granata, un pezzo di identità che custodiva con tenerezza e ostinazione, come fanno i tifosi veri. Parlava del Toro con quella combinazione di ironia e devozione che solo chi ama davvero una squadra sa maneggiare senza cadere nella retorica.

A piangerlo oggi sono la moglie Anna e il figlio Giacomo, ma anche generazioni di colleghi che gli devono qualcosa: un consiglio sussurrato a mezza voce, una battuta al momento giusto, un esempio dato senza volerlo dare. Perché Mauro era così: senza mai volerlo, insegnava. Senza mai dirlo, lasciava un segno. E quel segno oggi brucia di nostalgia, ma anche di gratitudine.

La sua scomparsa lascia un vuoto enorme tra Ivrea, il Canavese e le redazioni che hanno avuto la fortuna di incrociarlo.

È un vuoto che non si misura in parole ma in silenzi: i silenzi che restano quando ci accorgiamo che una voce, una presenza, una risata non ci sarà più.
E mentre la notizia continua a circolare, incredibile e dolorosa, a qualcuno dei suoi colleghi sembra di sentirlo ancora lì, con il suo sorriso sornione: «Ma dai, non ci starai mica credendo davvero…».

E invece sì, Mauro.
Ci tocca crederci.
Anche se nessuno di noi era pronto.

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