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Cronaca

Aggredisce l’ex buttandole benzina al volto: “Ti rovino la vita”

L’ha aspettata fuori dal lavoro, le ha lanciato benzina in faccia e poi è fuggito: voleva punirla per averlo lasciato. Il 46enne, ubriaco e ossessionato, è stato arrestato: “Un’ossessione morbosa”, scrive il giudice

Aggredisce l’ex buttandole benzina al volto: “Ti rovino la vita”

Non era un impeto improvviso. Era una persecuzione lenta, quotidiana, consumata tra le mura di casa e poi sul marciapiede di Seregno. Insulti, minacce, pedinamenti, violenza. Tutto davanti agli occhi dei figli. Quando lei ha trovato il coraggio di dire basta, lui ha deciso che non poteva tollerarlo. Così, il 5 novembre, ha messo in scena l’ultimo atto del suo controllo malato: una bottiglietta di plastica piena di benzina, un accendino in tasca e la furia cieca di chi crede che l’amore sia possesso.

L’ha aspettata fuori dal lavoro. L’ha vista uscire e le si è avvicinato con passo calcolato, come chi ha già deciso tutto. Le ha gettato addosso la benzina, colpendola al viso, agli occhi, e poi l’ha spinta, schiaffeggiata, insultata. Lei, stordita dal dolore e dal terrore, è riuscita a scappare in macchina, a chiudersi dentro, mentre lui – finalmente – fuggiva. Le telecamere di sorveglianza hanno registrato tutto. Ogni gesto, ogni urlo, ogni secondo di quella follia lucida.

L’uomo, un 46enne di origini rumene, si è presentato poco dopo in caserma. Portava con sé il cellulare, un accendino e la scatola di un sistema GPS: quello che aveva installato sull’auto dell’ex moglie per seguirla, per sapere dove andava, con chi parlava, per continuare a controllarla anche quando non poteva più metterle le mani addosso. “Un’ossessione morbosa”, ha scritto il giudice che ha disposto la custodia cautelare in carcere, parlando di un uomo “in stato abituale di alterazione da alcol”.

Era la fine annunciata di una storia che la donna aveva provato più volte a spezzare. Aveva cambiato casa, cercato protezione, denunciato. Ma le minacce non si erano mai fermate. “Se mi lasci ti rovino la vita”, le diceva. E a modo suo aveva cercato di farlo: controllandola, spiandola, umiliandola. Fino a quel giorno in cui poteva trasformarsi nell’ennesimo femminicidio evitato per miracolo.

Il caso di Seregno è l’ennesima fotografia di un Paese che si indigna per un giorno e dimentica il giorno dopo. Un Paese dove la violenza sulle donne non è un’emergenza, ma una struttura sociale che si ripete, anno dopo anno, con le stesse dinamiche, le stesse scuse, gli stessi epiloghi. Non si tratta solo di uomini violenti. Si tratta di una cultura che li giustifica, che li protegge, che li assolve.

Nel 2024, i numeri parlano più chiaro di qualsiasi discorso. Secondo i dati del Viminale, in Italia è stata uccisa una donna ogni tre giorni. Più di cento vittime dall’inizio dell’anno, di cui oltre la metà per mano di un partner o ex partner. E dietro ogni cifra, c’è una storia che diventa cronaca e poi memoria breve.

Giulia Tramontano

Come Giulia Tramontano, uccisa a Senago dal compagno che non accettava la gravidanza. Come Angelina, Elena, Giulia Cecchettin, simbolo di un dolore che ha travolto le piazze e scosso le coscienze, almeno per qualche settimana. Come Marina, ammazzata a coltellate dal marito davanti ai figli a Napoli. Come Donatella, bruciata viva in provincia di Bologna, dopo anni di segnalazioni e richieste d’aiuto rimaste lettera morta.

Ogni storia diversa, ma con un copione identico: la paura che diventa silenzio, la violenza che diventa abitudine, la tragedia che arriva puntuale. C’è chi parla di “amore malato”. Ma non è amore. È potere, dominio, controllo. È la pretesa di decidere della vita di un’altra persona. E quando questa pretesa viene messa in discussione, la risposta è spesso la morte.

Le istituzioni parlano di piani, protocolli, campagne di sensibilizzazione. Ma la realtà è che l’Italia continua a fallire nella prevenzione, nel sostegno concreto, nella protezione tempestiva. Le denunce ci sono, ma spesso arrivano tardi o vengono sottovalutate. Le misure cautelari non bastano. Gli uomini violenti non si fermano con un foglio. Le donne, invece, continuano a morire anche dopo aver chiesto aiuto.

L’aggressione di Seregno è stata fermata dalle telecamere, ma quante altre violenze restano invisibili, chiuse tra le mura di casa, sommerse dalla vergogna o dalla paura? Quante donne devono ancora essere aggredite, minacciate, cancellate, prima che il Paese capisca che non si tratta di casi isolati ma di un sistema?

La giustizia arriva, ma arriva dopo. Quando c’è un corpo, quando c’è un processo, quando c’è un nome da commemorare. Ma la giustizia vera sarebbe quella che previene, che interviene prima, che non lascia le donne sole davanti a chi le perseguita.

C’è un’Italia che prova a reagire, che riempie le piazze, che accende candele, che scende in strada per dire “basta”. Ma c’è anche un’Italia che si volta dall’altra parte, che giudica, che minimizza, che dice “è una questione privata”. Ed è in quell’Italia che i femminicidi continuano a germogliare, indisturbati.

La violenza di Seregno non è solo un fatto di cronaca. È un promemoria feroce di ciò che accade ogni giorno, ovunque. Di ciò che accade quando il rispetto viene confuso con la proprietà, quando la rabbia diventa diritto, quando l’amore diventa una gabbia.

Oggi le donne italiane continuano a morire perché osano scegliere, perché chiedono libertà, perché decidono di vivere. E finché questo accadrà, nessuna statistica potrà consolarci. Solo una società che cambia davvero potrà fermare questa strage silenziosa. E non basteranno le parole. Serviranno atti, leggi, cultura, educazione, coraggio. E la consapevolezza che ogni donna salvata è una vittoria collettiva.

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