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Quel profumo di una volta che solo nelle botteghe di paese si riesce ancora a trovare

Quel profumo di una volta che solo nelle botteghe di paese si riesce ancora a trovare

Dopo le tante interviste ai presidenti delle varie associazioni e personalità presenti sul nostro territorio, questa settimana sono stato letteralmente rapito da un’immagine, che ho deciso di condividere con Voi, non potevo tenermela per me.

Una di quelle immagini di una semplicità disarmante; una di quelle immagini di una forza tale, da riuscire a trasportarti in un viaggio nel tempo; una di quelle immagini che sono diventate parte del DNA di un essere umano.

Sabato mattina molto presto, camminando per le vie del paese, sono stato letteralmente investito da un dolce profumo. Un profumo di quelli che di solito invadono le strade dei centri abitati all’alba. Era da tempo che non mi imbattevo in quel profumo e come accade in questi casi, sono stato assalito dai ricordi. Catturato dal profumo, ne ho seguito la scia invisibile, come fosse la mia stella polare in mare aperto. Sono arrivato davanti a una panetteria e ci sono entrato. Dopo un saluto alla ragazza dietro il bancone, che lei ha ricambiato con un sorriso da riempirle gli occhi, oltre la porticina che dava sul retro del negozio, ho visto questa immagine, potente come poche, capace di rievocare con la sua semplice dirompenza, tutta la storia dell’uomo.

Ma di quale immagine starà parlando, vi starete chiedendo.

Un uomo che affonda le mani nella pasta, muovendole, con la stessa precisione delle dita di un pianista intento a suonare Rachmaninov. Quelle mani stavano compiendo un rito tramandato da millenni. Sono restato fisso su quelle mani, non so neppure io per quanto tempo.

La mia curiosità mi ha spinto a chiedere alla ragazza se avessi potuto fare due parole con il fornaio e lei, con un sorriso genuino, mi ha detto che il sabato è una giornata di tanto lavoro. Dev’essere la figlia del fornaio, ho pensato. Quel suo sorriso felice mi ha emozionato, perché è il sorriso di chi non vede come un peso il proprio lavoro.

Io li ricordo i negozianti di una volta, sempre felici, gentili con i clienti, puntigliosi nel voler accontentare il cliente e farlo andar via soddisfatto. Erano negozi nei quali spesso si lavorava con tutta la famiglia, perché quello era il lavoro di tutta la famiglia; il capofamiglia, concedetemi questo termine, investiva nei suoi progetti tutti i componenti del nucleo familiare, assegnando a ognuno una mansione: le donne, dietro il bancone a servire, perché lo sappiamo tutti che a sorridere serene come le donne, noi uomini, non ne siamo capaci; e i maschi, vicino al calore del forno, a preparare il pane, una mansione che nelle civiltà del passato era riservata solo alle donne.

Quelle persone possedevano un elemento fondamentale per essere felici, la capacità di sognare, ogni componente aveva il suo sogno personale ma tutti, attraverso quel lavoro comune, cercavano di realizzare ciò che avevano progettato nei loro sogni. 

Perché in fondo il mestiere del fornaio è panificare e pianificare.

Fare il pane ha un retrogusto mistico. È uno di quei mestieri che, più d’ogni altro, il tempo non ha mutato. 

Già dal Neolitico, l’uomo delle caverne utilizzava come alimento una pappa ottenuta dalla frantumazione di chicchi di frumento e acqua.

Gli antichi Egizi vengono considerati i primi veri panettieri. La tecnica era molto semplice: frantumavano nel mortaio i chicchi, separando poi con un setaccio la parte nutritiva del chicco dall’involucro nel quale era racchiuso per poi macinarli tra due pietre. La farina così ottenuta veniva mescolata con l’acqua, impastata a lungo e cotta su pietre.

La scoperta della lievitazione fu un passaggio importante perché rese il pane più morbido e di conseguenza più digeribile. 

A panificare durante la notte per far trovare al mattino il pane croccante e fresco, furono i greci a pensarci.

Ma torniamo al fornaio, alle sue mani, capaci di svolgere la loro attività senza che gli occhi debbano seguirne i movimenti per controllarli. Mi piacerebbe proprio scambiare due parole con lui, ma mi rendo conto che non è il momento giusto, anzi, sento che con la mia presenza andrei a profanare un tempio, come se fosse, e lo è, l’intrusione di un corpo estraneo, come se interrompessi un rito sacro. E poi, dico a me stesso, quasi a darmi una motivazione per desistere, una volta finito di fare il pane, dovrà iniziare il giro di consegna per tutto il paese. Un giro che finirà in tarda mattinata, ne sono certo. Mi domando quando andrà a riposare e la risposta mi esce spontanea, ci andrà stasera.

Il mestiere del panificatore è certo un mestiere duro, ma nella panetteria la felicità è tattile. 

Sono convinto che chi panifica sia un poeta, che il pane sia la sua poesia e che quel profumo, capace di inebriarci, portandoci indietro negli anni, sia la rima di quella poesia, l’eco che attraverso le vie si espande e cattura tutto il paese.

Una mattina presto, uscite e fatevi catturare da tutto questo amore.

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