Il professor Carlo Ossola (dovrebbero tremarmi le vene dei polsi solo a scriverne il nome), accademico di chiarissima fama e settimese di origine, tanto illustre quanto ignorato nella nostra piccola patria, presentando il proprio libro sul trattato inedito «Dell’impiego delle persone» dell’abate Carlo Denina (1731-1813), ci ha voluto parlare dell’epifania dello Statuto dei lavoratori. «Il lavoro è stato nei millenni condanna o redenzione […]. Ancora, nei secoli, fatica di schiavi e, ultima abiezione umana, soglia dei campi di sterminio: “Arbeit macht frei”. Eppure esso, non il benessere o la libertà, apre la Costituzione italiana». Ecco. Venerdì 15 maggio 1970, quando l’approvazione della legge 300 era cosa fatta, l’«Avanti!», lo storico quotidiano socialista, titolò l’articolo di fondo «La Costituzione entra in fabbrica», sintetizzando efficacemente come lo Statuto ponesse delle garanzie costituzionali di libertà e di dignità per il lavoratore, limitando, ad esempio, il controllo delle guardie giurate al solo scopo di tutelare il patrimonio aziendale, «fé la fogna», cioè frugare a fondo i lavoratori. L’«Avanti!», riconoscendo all’allora ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin di tenere il punto, confermando il progetto del suo predecessore, il socialista Giacomo Brodolini, sottolineò che il Parlamento, col proprio voto, ribadiva «una semplice e incontrovertibile affermazione democratica: la Costituzione della Repubblica non si deve arrestare dinnanzi ai cancelli delle fabbriche», fino ad allora uno spazio «extraterritoriale» sottoposto all’imperio assoluto del padrone. Anticiparono lo Statuto dei lavoratori la legge sugli infortuni del 1965 e, nel 1966, la legge che poneva dei limiti ai licenziamenti individuali «ad nutum» (senza fornire un motivo). Cinquant’anni dopo, per dirla con uno studioso della materia, «delle tre chiavi di volta» dello Statuto l’unica ancora in piedi è quella sulla repressione per via giudiziaria dei comportamenti antisindacali. Le altre? La prima girava intorno all’articolo 18, sancendo la polivalenza dei diritti politici e civili anche nell’ambito dell’impresa (la Costituzione entra in fabbrica, appunto): il suo nucleo ossia il divieto di licenziamento se non per giusta causa fu cancellato da Elsa Fornero e Mario Monti, prima, e nel 2016 dal Job Act di Matteo Renzi. La seconda fu minata dallo stravolgimento dell’articolo 19 (che favoriva l’insediamento del sindacato nelle aziende). Questi due elementi portanti dello Statuto, saldandosi, si integravano costituendo «un nesso di continuità tra interesse collettivo-sindacale e interessi individuali dei lavoratori». Certo, è cambiato anche il lavoro: sono mutati i processi produttivi, il rapporto di lavoro è segnato da una estrema precarietà, si sono assottigliati i confini tra lavoro dipendente e quello autonomo, si sono affermate nuove professioni e nuovi modi di lavorare, è esploso il cosiddetto smart working. A tutto questo bisognerà dare una risposta. Ma proprio su questo la sinistra, ancora una volta, stenta.
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