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16 Dicembre 2025 - 06:26
Occhiuto e Cirio
C’è una scena che a Roma conoscono tutti, ma che nessuno racconta mai fino in fondo. Un tavolo apparecchiato bene, con quella cura un po’ ossessiva che tradisce l’ansia di chi sa di stare maneggiando un’eredità delicata, luci basse studiate per non lasciare ombre imbarazzanti, poche persone scelte una per una, zero fotografi. Non è una riunione di partito, non è un congresso, non è nemmeno politica in senso stretto. È gestione del potere residuo, amministrazione controllata di ciò che resta di Forza Italia dopo la scomparsa del suo proprietario. È il luogo dove il partito decide davvero, anche adesso che Silvio Berlusconi non c’è più. O forse proprio perché non c’è più: perché senza il fondatore il potere non è evaporato, si è solo fatto più freddo, più silenzioso, più borghese, più spietatamente selettivo.
Mentre Antonio Tajani continua a ripetere, con la voce impostata da eterno portavoce, che il partito è unito, che non esistono corse, che la leadership non è in discussione, la macchina si è già messa in moto senza chiedergli il permesso. Silenziosa, educata, con il garbo ipocrita di chi non ha bisogno di annunci perché decide altrove. Come tutte le macchine berlusconiane, del resto: non fanno rumore, non sgommano, ma quando arrivi alla fine del percorso scopri che il viaggio era già stato pagato da qualcun altro.

Il problema è che oggi Forza Italia non ha un problema di statuto, ma di successione dinastica. E le successioni, si sa, non si risolvono con le votazioni, ma con le benedizioni giuste, possibilmente consumate a tavola, lontano dai cronisti e ancora più lontano dai segretari di partito. Tajani questo lo sa. Ed è proprio qui che la sua figura diventa tragicomica: il segretario che presiede un partito che non può scegliere, il custode di una casa dove non decide chi apre la porta, il notaio di una transizione che non gli appartiene. Continua a fare da pontiere, ma il ponte non porta da nessuna parte, e soprattutto non porta a lui.
In questo scenario si muovono loro, Roberto Occhiuto e Alberto Cirio. Calabria vs Piemonte. Due governatori, due stili, due ambizioni che nessuno osa chiamare ambizioni perché a Forza Italia l’ambizione è sempre una colpa se non è autorizzata. Ufficialmente non corrono. In realtà stanno già scannandosi a distanza, solo che uno lo fa alla luce del sole e l’altro con il coltello ancora nel taschino. E intorno a loro, nel pollaio azzurro, l’armonia proclamata convive con il rumore sempre più evidente delle speronate. Basta grattare appena la superficie per capire che i galletti hanno smesso di fare finta. Non ancora per prendersi il partito, ma per dimostrare di saper interpretare meglio – e prima dell’altro – i desiderata dell’azionista di maggioranza: la famiglia Berlusconi.
Entrambi lo hanno capito. Entrambi, diligenti come candidati a un’eredità non scritta, si sono già sottoposti al rito propiziatorio. Il famigerato bacio della pantofola di Marina. Due pranzi distinti, due inviti separati, stesso palazzotto milanese di corso Venezia. Nessuna incoronazione, nessuna promessa, nessuna foto. Solo ascolto. Che a Roma vale più di un congresso. Perché se ti ricevono, esisti. Se non ti ricevono, sei politicamente morto anche se respiri.
Smaltito il pranzo – raccontano impeccabile, chef all’altezza della liturgia – la partita entra nel vivo. Ed è qui che Occhiuto decide di forzare. Non abbastanza da sembrare ribelle, ma abbastanza da risultare visibile. Mette in piedi una corrente, la chiama laboratorio, la veste da riflessione culturale, ma intanto telefona, incontra, aggrega, conta. Ha l’energia di chi sente che questo è il momento buono, forse l’ultimo, prima che il partito venga definitivamente imbalsamato. Sa che Forza Italia è stanca, svuotata, ridotta a brand di servizio, e pensa – con una certa dose di arroganza – che serva uno scossone. È il più politico dei due. Ed è proprio per questo che incute sospetto.

La scelta di Palazzo Grazioli per lanciare “In libertà” non è un dettaglio, ma una dichiarazione di intenti. È un messaggio diretto a Milano 2: io parlo la vostra lingua. Liberalismo, garantismo, libertà di impresa. Ma non solo parole. Occhiuto rivendica fatti: Uber in Calabria, scontro frontale con Salvini sugli Ncc, applauso alla Consulta. Piccoli segnali, certo. Ma messaggi chiarissimi per chi guarda dall’alto e vuole capire chi è affidabile senza essere imbalsamato.
Poi c’è la mossa che fa storcere più di un naso: Stefano Esposito. Ex Pd, sopravvissuto a sette anni di gogna giudiziaria, oggi simbolo vivente del garantismo che Forza Italia dice di avere nel Dna ma pratica a corrente alternata. Non per arruolarlo, ma per dimostrare che Occhiuto sa giocare fuori dal recinto, sa sporcarsi le mani con la politica vera. Un’operazione nata – raccontano – durante una cena con Nicola Porro, altro snodo sensibile del mondo Mediaset. Politica, non burocrazia interna. E, incidentalmente, uno schiaffetto elegante a Cirio.
Perché Cirio, al contrario, non costruisce correnti: costruisce tranquillanti. Non lancia manifesti, lancia segnali ovattati. Non parla di futuro del partito, si fa trovare pronto nel caso qualcuno lo chiamasse. È l’uomo che non mette ansia a nessuno. Piace al mondo economico, non disturba il governo, non crea problemi, non fa brutte sorprese. Se Occhiuto dà l’idea di voler guidare Forza Italia, Cirio dà l’idea di volerla conservare sotto vetro, come un servizio di porcellana di famiglia. L’usato sicuro. Che in certi ambienti è più apprezzato del nuovo che non si sa dove possa portare.
Il suo gioco si sviluppa altrove. Portofino, per esempio. Dove vive Pier Silvio Berlusconi, cittadino onorario, villa affacciata sul Tigullio, lontano dai palazzi ma dentro ogni decisione che conta. È lì che Cirio coltiva rapporti, influenza, operazioni chirurgiche come l’adesione del sindaco Viacava a Forza Italia. Politica travestita da civismo, con possibile comparsata di Pier Silvio a suggellare il tutto. Non un’investitura, per carità. Ma un altro mattone posato nel muro della successione silenziosa.
Ed è qui che arriva il punto che nel partito tutti conoscono e che nessuno osa dire a voce alta: non sarà Forza Italia a scegliere davvero il suo prossimo leader. Ci sarà un voto, certo. Un congresso, forse. Applausi, foto, titoli autocelebrativi. Ma quella sarà solo la ratifica. La decisione vera passa da un altro tavolo. Un tavolo dove non siedono parlamentari, ma Marina e Pier Silvio Berlusconi, custodi di un’eredità che non hanno alcuna intenzione di consegnare a mani sbagliate.
Non ci sarà nessun “tocca a lui”. Non è il loro stile. Ma sarà chiarissimo chi va bene e chi no. A Roma basta un sopracciglio alzato, un incontro rinviato, una frase fatta filtrare al momento giusto per orientare un intero partito composto, ormai, da gente che annusa l’aria prima ancora di leggere i documenti.
Ecco perché la corsa tra Occhiuto e Cirio è vera, ma truccata nel regolamento. Occhiuto deve dimostrare di essere all’altezza. Cirio deve solo dimostrare di non essere un problema. Il primo è una scommessa. Il secondo una polizza assicurativa.
Nei corridoi gira una frase che vale più di mille congressi: “Se decide il partito vince Occhiuto. Se decide la famiglia, vince Cirio.”
E il punto è che la famiglia decide sempre, anche quando finge di non farlo.
Così il partito voterà. Certo che voterà. Perché il rito serve, perché la democrazia interna va esibita come un soprammobile di pregio. Ma il nome giusto arriverà già confezionato, già digerito, già inevitabile. Occhiuto continuerà a spingere. Cirio continuerà ad aspettare. Tajani continuerà a sorridere e a rassicurare, come un capotreno che annuncia partenze su una linea già dismessa.
Insomma: Forza Italia voterà il suo leader, ma lo farà come si vota un bilancio già chiuso. La scelta sarà stata fatta prima, altrove, lontano dalle urne e vicinissima al vero centro di gravità del berlusconismo.
E quando il risultato arriverà, tutti diranno che era inevitabile. Come sempre.
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