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Sette Martiri, la cronaca dell’eccidio del 14 dicembre 1944 in Canavese

Giovani partigiani, torture e fucilazioni tra Cuorgnè e Caluso

Sette Martiri, la cronaca dell’eccidio del 14 dicembre 1944 in Canavese

Sette Martiri, la cronaca dell’eccidio del 14 dicembre 1944 in Canavese

Si è tenuta nel pomeriggio di sabato 13 dicembre la commemorazione dei Sette Martiri di Cuorgnè, i partigiani fucilati dai nazifascisti il 14 dicembre 1944 alla periferia della città.

Come di consueto la cerimonia si è divisa in due parti. La prima comprendeva l’omaggio sul luogo dell’eccidio, in Località San Rocco- Via Sette Martiri, con la preghiera e la deposizione della corona d’alloro benedetta presso il cippo commemorativo. In corteo, accompagnati dalla Filarmonica dei Concordi, ci si è poi spostati nell’ex-chiesa della Trinità, dove la professoressa Silvana Costa Masser ha tenuto la commemorazione ufficiale, preceduta dai saluti del sindaco Giovanna Cresto e del presidente della sezione cuorgnatese dell’A.N.P.I. Roberto Rizzi: il Comune e l’A.N.P.I. sono gli organizzatori dell’evento.

Il sindaco ha sottolineato come gli avvenimenti storici vadano sempre valutati tenendo presente quanto accaduto in precedenza. Rizzi ha sottolineato l’importanza del ricordare “perché la storia si può anche riscrivere, come vediamo fare sempre più spesso, stravolgendola”. Sulla stessa linea il discorso della Costa Masser, che non è stato un’orazione di circostanza ma un’analisi puntuale con precisi riferimenti al presente pur cominciando dal doveroso ricordo di quei fatti e di quei martiri.

Passando dal passato al presente, la professoressa Costa Masser si è chiesta: “Cosa c’insegnano questi martiri, che persero la vita combattendo per la causa della Libertà? Oggi verrebbero magari definiti <dei poveri comunisti> come ha fatto la ministra Bernini con gli studenti di Medicina che la contestavano.

La democrazia non è più scontata in un mondo in cui la guerra e la dittatura sono state dimenticate al punto da venire auspicate proprio in questo Paese, che nel Dopoguerra, dopo la sconfitta del fascismo, non ha conosciuto né il totalitarismo sovietico né quello di segno opposto di Paesi come la Spagna e la Grecia. Gli Stati Uniti vivono una crisi senza precedenti che ci lascia attoniti; figure di scarso valore si atteggiano a statisti; la provocazione è diventata la regola: viviamo giorni bui, in cui un passato vergognoso, con il quale non abbiamo saputo fare i conti, si riaffaccia minaccioso. Che non si tratti di folclore lo si vede da un’indagine, condotta con criteri scientifici e su larga scala, dalla quale emerge che il 72% degli italiani non crede nei partiti e che il 30% pensa che un potere assoluto saprebbe dare risposte migliori alle esigenze del presente. I Sette Martiri oggi ci direbbero che la democrazia non è acquisita una volta per sempre e che va custodita esercitando innanzitutto il primo dei diritti: quello di voto”.

A chiusura della manifestazione, la Filarmonica ha fatto levare alte le note di <Bella ciao> e di <Fischia il vento>.

L'eccidio del 14 dicembre 1944

L’eccidio del 14 dicembre 1944 fu simile, nella sua crudeltà, a tanti altri accaduti nel periodo della Resistenza ed anche i protagonisti lo erano: da un lato i partigiani, per lo più ragazzi; dall’altro il possente esercito tedesco, le SS e i loro gregari della Repubblica di Salò.

I fatti – ha spiegato la relatrice – sono noti grazie alla testimonianza diretta del parroco di Cuorgnè (peraltro attivissimo nella Resistenza) che vi assistette. Poco invece si sa dei partigiani fucilati. L’ANPI cuorgnatese si è impegnata in una ricerca complicata e qualcosa è riuscita a sapere ma non molto: i dati raccolti sono stati riepilogati sui cartelloni esposti lungo le pareti della sala.
I Sette Martiri erano quasi tutti ventenni con l’eccezione di Giovanni Bonaveri, residente a Feletto, che di anni ne faceva 56 mentre il più giovane non aveva ancora compiuto i 19: era il lomellinese Alberto Pavesi, che malgrado l’età era entrato nella Resistenza già da 11 mesi. L’altro giovanissimo, Giovanni Ruffatto, era di Salto eppure di lui non si è riusciti a sapere nulla anche perché nessuna traccia si è trovata della sua famiglia. Vent’anni aveva Renzo Elli di Milano, partigiano da 5 mesi. Giulio Costa, nato nel 1922, era di Lombardore; Roberto Paccotti di Torino. C’era anche un aquilano, Giovanni Coccocetta, da 5 mesi nella Resistenza.

Vennero catturati il 10 dicembre nella Frazione Gatto di San Martino Canavese, a causa di una delazione: sembra che la spia fosse un falso venditore di sciarpe e calze. Le due sentinelle furono uccise, gli altri 26 fatti prigionieri insieme a numerosi civili mentre molte case venivano perquisite. Per tre giorni i partigiani vennero torturati nella caserma Pinelli di Cuorgnè dove – ha sottolineato la Costa Masser – “operava la X Mas, quella che oggi si vorrebbe riabilitare”. Nel tardo pomeriggio del 14 dicembre, quando il buio impediva che venissero troppo notati dalla popolazione, sette dei prigionieri vennero portati sul luogo della fucilazione, all’incrocio fra la strada per Alpette ed il sentiero di Buasca. Il parroco don Cibrario, che li accompagnava al patibolo ma che non riuscì a parlare con loro, nemmeno a farsi dire i nomi, li descrisse poi come <trasognati, quasi assenti>. Lui stesso si sentiva <intontito>. Riconobbe un ragazzo la cui famiglia abitava sulla collina dei Ronchi e lo colpì profondamente il pensiero di un figlio ucciso quasi sulla soglia di casa.

L’ufficiale tedesco era nervoso e i componenti del plotone di esecuzione avevano in dotazione due fucili per ciascun condannato, casomai il primo non fosse bastato. Riferì poi il parroco che “il sangue dell’uno bagnava il viso del vicino” mentre Bonaveri, che con i suoi 56 anni a quell’epoca era un anziano “si teneva abbracciato ai due ragazzi che gli stavano vicino. Non morirono subito, li potevo osservare morenti nella buca scavata per loro, prima che ricevessero il colpo di grazia. Una donna uscì da una casa, si avvicinò, trovò un partigiano ancora vivo e lo tenne tra le braccia fin quando spirò. I cadaveri rimasero insepolti fino al giorno successivo, quando ormai la popolazione era al corrente dell’accaduto”.

La fine degli altri catturati non fu migliore: 5 vennero fucilati a loro volta il 19 dicembre ma non più a Cuorgnè – dove l’atmosfera era troppo tesa – bensì ad Arè, frazione di Caluso. Gli altri 12 furono deportati in campo di concentramento. Tornarono a casa in due.

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