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840 volte il tempo: la notte in cui Torino ha smesso di respirare

A Palazzo Nuovo quarantacinque pianisti hanno attraversato Vexations di Erik Satie in una maratona di ventuno ore: un rito collettivo, un’esperienza ipnotica in cui la ripetizione è diventata meditazione e la città ha ascoltato il silenzio trasformarsi in musica

840 volte il tempo: la notte in cui Torino ha smesso di respirare

840 volte il tempo: la notte in cui Torino ha smesso di respirare

Che cosa spinge decine di pianisti a sedersi davanti a un pianoforte per suonare lo stesso frammento quasi ininterrottamente per un giorno intero? Forse il desiderio di attraversare una soglia invisibile: quella in cui la ripetizione smette di essere monotonia e diventa meditazione collettiva, respiro comune, un rito laico che unisce performer e ascoltatori. È accaduto a Torino, a Palazzo Nuovo, aperto eccezionalmente per una lunga notte dedicata a Vexations di Erik Satie, una delle composizioni più enigmatiche del Novecento, capace di trasformare l’ascolto in esperienza e l’esperienza in consapevolezza.

Dalle 15 di venerdì 5 dicembre alle 12 di sabato 6 dicembre 2025, quarantacinque pianisti si sono seduti davanti a un gran coda disposto al centro dell’atrio trasformato in un piccolo salotto intimo, quasi domestico, dove il tempo sembrava perdere peso. A coordinare il passaggio di testimone è stata la musicista e docente Carla Rebora, che ha riunito docenti universitari, professionisti, convegnisti, insegnanti e studenti del Conservatorio di Torino. Uno dopo l’altro, in un flusso continuo, hanno affrontato il compito: suonare un frammento di centocinquantadue note per 840 ripetizioni, come indica la partitura. Un numero che non è un vezzo né un capriccio: è il cuore stesso di Vexations, l’ossessione circolare che studia i limiti della percezione, dell’attenzione, della resistenza fisica e mentale.

Chi entrava a Palazzo Nuovo si trovava catapultato in un’atmosfera sospesa, governata da luci morbide e da un silenzio che non era assenza, ma accoglienza. Poche sedie, nessuna solennità museale: un luogo per ascoltare da vicino come cambia ciò che sembra immutabile. Un monitor segnava il numero della ripetizione in corso, come un metronomo visivo affidato alla pazienza del pubblico. Ogni interprete lasciava una sfumatura diversa: un attacco più morbido, un pedale più o meno generoso, un respiro trattenuto. Micro-gesti che si sommavano come tessere di un mosaico collettivo, in una performance che più che concerto diventava rito.

La natura ipnotica dell’opera è inscritta nelle parole stesse del suo autore. In testa alla partitura, Satie scrive: “Per suonare questo motivo 840 volte, bisognerebbe prepararsi in anticipo, nel più assoluto silenzio, con serie e scrupolose immobilità”. Quel monito, che sembra ironico e invece non lo è, racconta perfettamente lo spirito dell’opera: Vexationsnon va “interpretata”, va attraversata. È un’esperienza estrema, e per questo profondamente intima, tanto per chi suona quanto per chi ascolta.

Se oggi quest’opera è diventata un oggetto di culto, lo si deve anche alla prima esecuzione documentata, organizzata da John Cage tra il 9 e il 10 settembre 1963 a New York. Al Pocket Theatre si alternarono decine di pianisti dalle 18 fino alla mezzanotte del giorno successivo. L’evento suscitò un’attenzione mediatica straordinaria: otto critici del New York Times seguirono integralmente la maratona, e uno di loro finì persino per sedersi al piano per completare un turno. In sala c’era anche Andy Warhol, perché Vexations non appartiene solo alla musica: è un crocevia di estetiche, un punto di incontro tra arti visive, performance, avanguardia.

In Italia, l’opera è riaffiorata solo in occasioni rare e speciali, quasi mai in forma integrale. Ci sono state apparizioni alla Biennale Musica di Venezia, al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, all’interno di MiTo SettembreMusica e in una storica esecuzione fiorentina curata da Tempo Reale. L’esecuzione torinese del 2025, integrale, corale, notturna, organizzata in un edificio simbolo dell’Università, è destinata a restare negli annali culturali cittadini. Per la cura dell’organizzazione, per la qualità degli interpreti, per l’atmosfera da veglia laica che ha trasformato un corridoio universitario in un luogo di ascolto radicale.

A rendere l’appuntamento ancora più significativo è il contesto del centenario della morte di Erik Satie, scomparso a Parigi il 1° luglio 1925. Anticlassico, avanguardista, spiazzante, Satie ha incarnato la libertà assoluta del gesto artistico. Le sue melodie semplici, ipnotiche, talvolta volutamente spoglie, anticiparono il minimalismo e influenzarono profondamente Debussy e Ravel. A un secolo dalla scomparsa, la sua musica continua a vibrare perché sa parlare a quella soglia sottile tra consapevolezza e abbandono, tra concentrazione e deriva meditativa. Vexations, così minimale da sembrare inesauribile, è un esempio perfetto di questa dimensione: ciò che è piccolo diventa smisurato, ciò che è ripetuto si trasforma, ciò che è semplice rivela un abisso.

Torino l’ha capito. E per una notte intera ha ascoltato il tempo smettere di correre e ricominciare da capo, 840 volte. Un numero quasi impossibile, eppure perfettamente reale: il tempo di una città che accetta di fermarsi, di respirare insieme, di riscoprire la forza di ciò che ritorna. Un’esperienza rara, che non si dimentica. Un atto collettivo di resistenza poetica, in cui la musica non intrattiene: accompagna, accoglie, trasfigura.

Se c’è un luogo in cui Satie poteva essere celebrato nel modo più autentico possibile, era questo: un’Università aperta di notte, una comunità di pianisti che si passa il testimone come in una staffetta sacra, un pubblico che entra ed esce per ore senza rompere l’incantesimo. Perché Vexations non è un concerto: è una soglia. E Torino, per una notte, ha avuto il coraggio di attraversarla.

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