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06 Dicembre 2025 - 16:58
Diciotto anni senza giustizia: il dolore infinito delle famiglie ThyssenKrupp
Le note di una inaspettata versione latinoamericana di Last Christmas, che si alzano leggere ma anche stonate rispetto al luogo, spezzano il silenzio del cimitero Monumentale di Torino e diventano il sottofondo amaro della commemorazione. Nel gelo di un dicembre che sembra voler trattenere il respiro insieme ai presenti, quella musica rende ancora più palpabile un dolore che non si spegne da diciotto anni, un dolore che continua a scavare, a farsi largo fra le pieghe di una città che non ha mai davvero smesso di interrogarsi su ciò che accadde la notte del 6 dicembre 2007 alla ThyssenKrupp. È il dolore, misto a una rabbia che le famiglie definiscono “persistente e corrosiva”, dei parenti dei sette operai morti nel rogo dell’acciaieria: Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Nomi che a Torino continuano a essere pronunciati come ferite aperte.
«Mio fratello amava la musica latinoamericana, so che è un po’ strano sentirla qui, ma quest’anno mi sono sentita di farlo», ha detto con voce spezzata Laura Rodinò, quasi scusandosi davanti alla folla raccolta attorno alle lapidi, come se quel momento così intimo si fosse inavvertitamente sovrapposto al rito pubblico. È stata lei, anche quest’anno, a voler tenere accanto tutti i familiari delle vittime prima di prendere la parola per ricordare il triste anniversario. E le sue parole, ancora una volta, non sono state parole leggere. Nessun tentativo di smussare, nessuna retorica: solo la nuda verità di chi ha combattuto troppo a lungo per potersi permettere la diplomazia.
«Perché rabbia e dolore in diciotto anni non sono passati, anzi sono aumentati. Basta guardarci in faccia per capirlo», ha detto Laura, rimasta negli anni una delle voci più ferme, più lucide e più amare nella lunga battaglia per la giustizia. Attorno a lei le altre famiglie, madri e mogli che non hanno mai smesso di chiedere responsabilità e verità, e che oggi – come nei diciotto anni precedenti – ripetono che ciò che è accaduto alla ThyssenKrupp non può essere archiviato come una tragedia inevitabile. Non possono farlo, dicono, perché non c’è giustizia quando «gli assassini sono fuori dalla galera», frase che Laura non ha esitato a pronunciare anche oggi con un dolore che scava e brucia: «Neanche al peggior nemico augureresti un dolore e una morte così. Purtroppo agli assassini sì».


Davanti a lei, in un silenzio che si fa quasi fisico, ci sono altri parenti di vittime, quelli della strage ferroviaria di Viareggio, arrivati per dare forza, per condividere un destino comune e un lutto che sembra non trovare pace. Ci sono anche rappresentanti delle istituzioni, a cominciare dal sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, che ha aperto il suo intervento con un impegno solenne: «Torino non dimentica, non può, non vuole e non deve farlo». Per il sindaco, i sette operai «rappresentano l’Italia migliore», quella che lavora nelle fabbriche e nei reparti senza riflettori, quella che tiene in piedi il Paese e che troppo spesso viene ricordata soltanto quando accade l’irreparabile. Uomini «stroncati dall’incuria e dalla non capacità di cogliere l’essenza stessa del nostro essere su questa terra», ha detto Lo Russo, ricordando che la vita deve venire prima di tutto: «Prima del profitto, della performance, dei risultati».
Dal primo cittadino è arrivato anche un appello: trasformare la memoria in azione. «Un impegno collettivo che riguarda le istituzioni, i datori di lavoro, gli organi di giustizia e di controllo e ciascuno di noi», ha detto Lo Russo, quasi a voler colmare quella distanza che per anni le famiglie hanno sentito tra le loro richieste e la risposta della politica.
E non ha voluto mancare all’appuntamento, per il secondo anno consecutivo, la procuratrice generale Lucia Musti, che ha riconosciuto apertamente l’impossibilità di colmare il vuoto lasciato dalla tragedia: «Non c’è una pena commisurata al vostro dolore, al danno perpetuo che portate». Un’affermazione che ha attraversato il cortile del cimitero come un vento gelido, mentre la procuratrice lanciava un monito severo: «Occorre educare al rispetto, andare contro la logica del guadagno, che è spietata». Ha ricordato che le regole per la sicurezza esistono e sono chiare, ma ciò che manca, ancora oggi, è «una prevenzione a tappeto» e soprattutto «un’etica del lavoro, di tutti i datori di lavoro», necessaria per impedire che crimini di questo tipo continuino a ripetersi.
La commemorazione è stata anche l’occasione per il presidente nazionale dell’Anmil, Antonio Di Bella, di tornare a una richiesta avanzata più volte negli anni ma mai realmente affrontata: l’istituzione di una Procura nazionale del lavoro. Una struttura capace di garantire uniformità, efficienza e tempi certi nelle indagini su incidenti e morti bianche. «Nel ricordo e per la dignità degli operai che hanno perso la vita quella notte – ha detto Di Bella – e di tutti i lavoratori, lavoratrici e superstiti che chiedono che il loro sacrificio valga un concreto cambio di passo ancora oggi disatteso».
Le note di Last Christmas, ormai svanite nel freddo di dicembre, sembrano lasciare in eredità un messaggio sospeso: che il Natale non può essere festa per tutti, non lo sarà mai per chi continua a vivere con un vuoto che non si colma. E che la memoria, da sola, non basta: occorre trasformarla, come hanno chiesto oggi in molti, in qualcosa che assomigli davvero a un futuro diverso. Un futuro in cui nessuno debba più tornare, anno dopo anno, davanti a sette lapidi a ricordare che il lavoro – ancora oggi, in Italia – può uccidere.
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