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06 Dicembre 2025 - 16:22
A Oulx la casa che salva i migranti: la visita del cardinale Repole al rifugio di don Chiampo
In alta Valle di Susa, quando il vento taglia la faccia e la neve arriva senza chiedere permesso, c’è una porta che resta sempre aperta. Una porta che dà su una casa dove le luci non si spengono quasi mai, perché a bussare sono uomini e donne che hanno attraversato notti intere senza sapere se avrebbero avuto un domani. Hanno freddo, fame, lo sguardo svuotato dalla paura. Eppure, appena varcano quella soglia, respirano un attimo di tregua. È il rifugio Fraternità Massi di Oulx, un luogo che da sette anni è insieme riparo, conforto, argine fragile ma tenace contro l’indifferenza.
A guidarlo dal 2018 è don Luigi Chiampo, sacerdote della Diocesi di Susa e presidente della Fondazione Talità Kum. Una figura instancabile, che da anni raccoglie i pezzi di vite spezzate lungo la rotta alpina. Oggi il rifugio ha ricevuto la visita del cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, un gesto che sa di riconoscimento e di responsabilità condivisa. La presenza di un cardinale, qui, in questa frontiera del dolore, è qualcosa che pesa, che lascia un segno.
Speriamo che questa visita espanda la visibilità del nostro centro di accoglienza e favorisca nuove forme di aiuti, confida don Chiampo, con voce calma ma segnata dall’esperienza. Lo dice davanti ai volontari, ai migranti, ai pochi presenti ammucchiati nel salone principale, dove l’odore della minestra si mescola alle storie che nessuno vorrebbe mai vivere.

Il sacerdote conosce ogni volto, ogni ferita, ogni passo di chi arriva qui. Serve una gestione attenta alla sicurezza, spiega senza nascondere nulla. La struttura ospita circa un centinaio di migranti al giorno, che devono essere accolti e seguiti: sono situazioni complesse che il territorio deve capire. Non è un avvertimento: è la constatazione di chi da anni regge un fardello enorme, mentre intorno non sempre c’è la consapevolezza di ciò che accade.
E poi c’è la questione economica, quella che raramente entra nei discorsi pubblici ma che determina la sopravvivenza del rifugio. Il rifugio, per come è stato organizzato, risponde ad ogni bisogno del migrante: accoglienza, ascolto, supporto sanitario, assistenza legale, vestiario. Questo negli anni ha comportato una spesa di circa 700-800mila euro, ricorda don Chiampo, quasi con pudore. Perché chi lavora sul campo sa che le cifre non raccontano mai davvero l’intensità della fatica.
Negli ultimi anni il rifugio ha potuto contare anche su fondi pubblici: Dal 2022 al 2023 abbiamo ricevuto il contributo del Ministero degli Interni, perché c’erano dei fondi progettuali europei, finiti a dicembre 2023. Ora stiamo dialogando con la Città metropolitana di Torino per riuscire a creare una progettualità sul territorio che sostenga il rifugio. Per adesso utilizziamo le risorse della Diocesi di Susa, della Fondazione Magnetto e dei tanti privati che generosamente ci sostengono. E mentre lo dice, gli occhi di don Chiampo si illuminano: perché sa che senza quei privati, senza quelle mani tese, il rifugio avrebbe già chiuso più volte.
La visita del cardinale Repole non è soltanto un atto formale. È un messaggio. È l’idea che in questi luoghi estremi, dove l’Europa diventa una linea tra vita e morte, la Chiesa non può permettersi il lusso dell’astrazione. Qui la fede si misura nell’acqua calda, in una coperta pulita, in un paio di scarpe asciutte. E il cardinale lo sa bene. Alla fine della sua visita, la sua voce si fa ferma: Il rifugio ha bisogno di sostegno, questo è evidente. Sono venuto qui anche per dire a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che questo è un luogo per esprimere qualcosa della nostra generosità e della nostra umanità.
Generosità. Umanità. Parole che spesso rischiano di suonare consumate, ma che qui, in questa casa a Oulx, ritrovano senso. Perché chi arriva al Fraternità Massi non porta solo valigie piene di paura: porta anche la speranza che da qualche parte, qualcuno sia disposto a guardarlo negli occhi senza giudicare.
L’aiuto può prendere molte forme: finanziamenti, certo, ma anche vestiario, coperte, scarpe. E soprattutto tempo. Il tempo dei volontari, che ogni giorno tengono in piedi questo presidio di dignità. Perché qui, tra queste mura semplici e vissute, l’accoglienza non è un concetto astratto: è un gesto ripetuto mille volte, con la stessa cura, con la stessa ostinazione, con lo stesso infinito rispetto per la fragilità umana.
Oulx oggi ha visto passare un cardinale. Ma ogni giorno, qui, passano persone che non hanno titolo, ruolo o autorità. Hanno solo una storia ferita e il bisogno di essere accolti. Ed è forse questo, più di tutto, che rende il Fraternità Massi un luogo necessario: la certezza che, almeno una volta nella loro lunga fuga, qualcuno abbia detto loro senza parlare: qui puoi fermarti, almeno per un po’.
Di notte, in alta Val di Susa, la montagna sembra parlare. Scricchiola, morde, respira. Le stelle si vedono a migliaia, ma non fanno luce. L’aria taglia la pelle come una lama sottile. Camminare qui richiede fiato, muscoli, visione. E invece, su questi sentieri che d’inverno diventano fiumi di ghiaccio, passano persone che non hanno niente: né scarpe adeguate, né guanti, né idee chiare su dove si trovino. Hanno solo una parola in testa: “Francia”. E una domanda che torna sempre, come una preghiera strozzata: “Ancora quanto?”.
Ho provato a percorrerlo anche io, quel tratto di strada che porta dalla stazione di Oulx verso i boschi e poi su, ancora su, fino ai passi che segnano la linea invisibile del confine. Non ho fatto tutto il percorso — sarebbe presunzione chiamarlo così — ma abbastanza da capire che chi lo affronta con un bambino in braccio o con scarpe da ginnastica sfondate compie un gesto eroico e disperato. A ogni curva senti il respiro gelato, senti il cuore che accelera, senti soprattutto la solitudine. Una solitudine che non assomiglia a niente di ciò che viviamo nella nostra vita quotidiana: è una solitudine che pesa addosso, che schiaccia.
Ed è dopo quel cammino che la luce del Rifugio Fraternità Massi sembra un miracolo. Una finestra accesa nel buio, una mano tesa in mezzo alla neve. È una casa semplice, senza promesse di futuro, ma con una promessa immediata: non morirai stanotte.
Da sette anni, questa promessa la mantiene don Luigi Chiampo.
Lo riconosci subito: non ha l’aria del sacerdote distaccato, non ha l’impostazione solenne di chi parla dall’altare. Ha la faccia di chi lavora, le mani di chi porta pesi, la voce di chi non ha più tempo da perdere. Prima di diventare prete è stato operaio, atleta, un uomo di fatica vera. Forse è per questo che non teme gli sguardi duri, gli odori forti, le storie impossibili da sopportare. Si vede che è uno abituato a non farsi mettere paura dalla realtà.
Quando parli con lui, non ti racconta un progetto, ti racconta persone.
Ti dice che ogni giorno passano almeno cento migranti. Ti dice che ha visto piedi congelati, ginocchia sanguinanti, madri che allattano neonati all’aperto, uomini che non ricordano più il loro nome. Ti dice che la montagna è bellissima, sì, ma crudele. Che ogni anno qualcuno ci lascia la pelle. Che vede arrivare ragazzi di vent’anni che ne dimostrano quaranta.
E quando gli chiedi come faccia a reggere tutto questo, lui stringe le spalle, come se la risposta fosse ovvia: “Nessuno deve morire di freddo davanti a casa nostra.”
Il rifugio accoglie tutti: chi ha camminato dai Balcani, chi ha attraversato il Mediterraneo su gommoni che non avrebbero salvato neppure un animale, chi è scappato da guerre dimenticate.
La prima cosa che ricevono non è una domanda: è una zuppa calda.
Poi una coperta.
Poi un letto, se c’è posto.
Poi un paio di scarpe asciutte, una giacca, una maglietta, dei guanti.
E infine, un respiro. Un respiro lungo. Come se per la prima volta da mesi qualcuno autorizzasse quei corpi fragili a rilassarsi per dieci minuti.
La struttura ha stanze semplici, letti distribuiti su più piani, un refettorio che esiste grazie alle mani dei volontari. Volontari che vanno e vengono, che regalano tempo, soldi, energie, sorrisi che spesso sono l’ultima cosa preziosa che possa capitare a un migrante prima della salita verso il confine.
Camminare dentro il rifugio, mentre fuori la temperatura scende e la neve comincia a cadere, è un’esperienza che rimette a posto il mondo e lo distrugge allo stesso tempo.
Vedi un ragazzo del Mali che dorme con le mani strette attorno allo zaino come se contenesse la sua identità.
Vedi una donna siriana che accarezza la guancia della figlia come se quel gesto potesse cancellare un anno intero di paura.
Vedi uomini che non hanno più lacrime, perché le hanno usate tutte.
Don Luigi, in mezzo a tutto questo, non fa discorsi. Cammina. Passa da una stanza all’altra. Guarda chi ha bisogno di una coperta in più, chi non riesce a respirare bene, chi ha dolore ai piedi. Ogni tanto sorride, ma è un sorriso che conosce la stanchezza. Un sorriso che sa che il giorno dopo sarà identico al giorno prima.
Gli chiedi se è stanco.
Lui sospira.
E poi ti dice: “La stanchezza non conta. Contano loro.”
È questo “contano loro” che riassume tutto.
Il Fraternità Massi non è un luogo perfetto. Non è un centro super finanziato, non è una struttura dello Stato. È un miracolo quotidiano. È un pugno di persone che, su una rotta di sofferenza, hanno deciso che almeno un punto deve essere umano.
È un presidio contro la morte.
È un argine contro l’indifferenza.
I costi sono enormi: in otto anni sono stati spesi quasi 800mila euro per garantire accoglienza, cure, ascolto, vestiario, cibo. Per due anni — lo dicono i documenti — sono arrivati fondi europei. Poi più nulla.
E da allora il rifugio va avanti con le donazioni della Diocesi di Susa, con l’aiuto della Fondazione Magnetto, con le monete e i bonifici dei privati. Ogni euro è un pezzo di montagna che non inghiotte qualcuno.
Se provi a metterti nei panni di un migrante — e io l’ho provato, almeno in parte — capisci che il rifugio è l’ultimo luogo della speranza prima della prova più dura: la notte del confine.
Molti, dopo aver mangiato e dormito qualche ora, ripartono. Alcuni tornano indietro feriti, respinti, congelati. Altri spariscono. Altri ancora ce la fanno, e nessuno saprà mai come.
E poi c’è chi non arriva nemmeno al rifugio.
Chi crolla prima.
Chi si perde.
Chi non ce la fa.
Don Luigi conosce tutti questi finali, eppure continua.
Continua perché sa che ogni persona che entra da quella porta è una vita strappata alla morte.
Continua perché crede, davvero, che un pezzo d’Europa diverso possa esistere.
Continua perché “accogliere” non è una parola ma un verbo.
E i verbi, qui, si coniugano con le mani, con i piedi, con la notte.
Uscendo dal rifugio, la montagna sembra più grande e più scura.
Ma la luce dietro quella finestra resta accesa.
E mentre cammini verso la stazione, senti il vento diventare più forte.
Pensi ai passi dei migranti, ai loro silenzi, ai loro respiri.
Pensi che nessuno di loro avrebbe dovuto essere lì.
Pensi che il mondo è ingiusto, crudele, spesso insopportabile.
Eppure, tra tutta questa crudeltà, c’è un uomo in una casa che non chiude mai la porta.
Un uomo che ha deciso che, almeno qui, almeno una notte, la vita deve vincere.
E capisci che, forse, questo basta per continuare a sperare.
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