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Gaza dopo la tregua: la verità nascosta dietro i 600 camion che non arrivano

Dati satellitari, rapporti ONU e denunce di Amnesty International rivelano un’emergenza umanitaria senza precedenti: case distrutte, aiuti bloccati, economia collassata. E la tregua diventa un’illusione che rischia di costare altre vite

Gaza dopo la tregua: la verità nascosta dietro i 600 camion che non arrivano

Gaza dopo la tregua: la verità nascosta dietro i 600 camion che non arrivano

Una fila di camion lunga chilometri, motori spenti, autisti che aspettano sotto il sole. Davanti, un valico di frontiera; dietro, un carico di bisogni: latte in polvere, antibiotici, tende, materiali che non arrivano mai. In mezzo, la tregua. È l’immagine-ossimoro che racconta la realtà di Gaza dopo il cessate il fuoco: il silenzio relativo delle armi non riempie le pentole vuote, non ripara i tetti sventrati, non restituisce case a chi non le ha più. “La tregua crea l’illusione che tutto stia tornando normale”, avverte Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. Non è così: secondo l’organizzazione il genocidio continua perché continuano condizioni di vita incompatibili con la sopravvivenza di un popolo. I numeri lo confermano: aiuti contingentati, infrastrutture devastate, economia cancellata.

“Non è finito”, ribadisce Callamard. La riduzione delle operazioni militari non cambia la sostanza: le restrizioni su cibo, carburante, cure, ricostruzione rimangono sistematiche. A sostegno della denuncia ci sono testimonianze di medici, operatori umanitari e civili, e un’analisi giuridica che richiama gli ordini vincolanti della Corte Internazionale di Giustizia (CIG). Secondo le decisioni del 26 gennaio, 28 marzo e 24 maggio 2024, Israele deve garantire “la fornitura senza ostacoli e su larga scala” dei beni essenziali, aprire e mantenere operativi i valichi, e prevenire ogni possibile violazione della Convenzione sul genocidio. Il quadro giuridico è chiaro; sul terreno, però, fatica a tradursi in realtà.

Gli accordi sulla tregua fissano una soglia: 600 camion di aiuti al giorno, inclusi carburante e un volume minimo diretto al nord della Striscia. Nei giorni migliori la cifra è stata sfiorata; in molti altri è rimasta un obiettivo mancato. Report della ONU, dell’OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) e comunicazioni istituzionali mostrano flussi irregolari: dopo un picco iniziale, intere settimane di calo, fino a periodi in cui l’ingresso non ha superato i cento camion quotidiani, una quantità del tutto inadeguata per 2,3 milioni di persone. Tra ottobre e novembre 2025 la media stimata da fonti palestinesi coordinate con agenzie ONU è stata di circa 348 camion al giorno, poco più del 40% di quanto previsto dalla tregua. Una quota consistente dei transiti, inoltre, era composta da merci commerciali, e non da aiuti puri: un fattore che riduce ulteriormente la capacità di risposta alle necessità immediate.

Poi c’è il capitolo degli articoli proibiti: tende, teloni, prefabbricati, legname, materiali di riparazione. L’ingresso resta ostacolato da divieti per “dual use”, verifiche doganali interminabili e veti specifici. Per mesi, spiegano Shelter Cluster, Norwegian Refugee Council (NRC) e altre ONG, i materiali per il riparo non sono entrati affatto. Anche dopo gli annunci di alleggerimento, le autorizzazioni sono arrivate col contagocce. Risultato: magazzini vuoti, campi sovraffollati, rifugi improvvisati con ciò che resta.

In mezzo alla crisi c’è il tema del riparo. Serve una casa, qualsiasi casa, ma quasi nessuno ce l’ha. Le agenzie umanitarie lo ripetono: mancano tende e kit d’emergenza per milioni di sfollati. In primavera 2025 le scorte risultavano esaurite e migliaia di teli restavano bloccati a Rafah. Le prime piogge hanno allagato gli accampamenti; migliaia di tende sono crollate o si sono sbriciolate sotto il maltempo. Alla vigilia dell’inverno 2025-26 oltre un milione di persone vive senza riparo adeguato, esposta a ipotermia, infezioni respiratorie, diarrea, scabbia, in un contesto in cui le acque reflue scorrono a cielo aperto. Le forniture di coperte, abiti caldi e stufe sono insufficienti. Bambini e anziani restano i più vulnerabili.

La devastazione è misurata al metro quadrato. Il più recente rapporto dell’UNOSAT (United Nations Satellite Centre)mostra che all’11 ottobre 2025 circa l’81% delle strutture della Striscia risulta danneggiato o distrutto: oltre 198.000 edifici colpiti, più di 123.000 completamente rasi al suolo. È un salto impressionante rispetto al 66% rilevato un anno prima. Sulle scuole il dato raggiunge un livello quasi irreale: circa il 92% degli edifici scolastici risulta danneggiato, secondo il Cluster Educazione. Non è solo il crollo delle case; è l’interruzione forzata della vita civile: istruzione, lavoro, cura, quotidianità. Un’intera società sospesa.

Secondo stime ONU, oltre il 90% delle abitazioni risulta danneggiato; in alcune rilevazioni si arriva al 92%. Chi vive tra le macerie conosce bene cosa significa: niente tetto, niente finestre, niente isolamento, nessun luogo dove tornare.

Sul piano economico, la diagnosi è drammatica. La UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) parla di un territorio trascinato “in un abisso costruito dall’uomo”: PIL contratto di oltre l’80% nel 2024, calo cumulato dell’87% in due anni, disoccupazione all’80%, inflazione oltre il 200%. L’indicatore più eloquente è il PIL pro capite: 161 dollari, meno di 50 centesimi al giorno. Le prime stime della ricostruzione superano i 70 miliardi di dollari, con tempi valutati in decenni. Ma per ricostruire servono materiali, sicurezza, funzionamento istituzionale, valichi aperti con regolarità: condizioni oggi lontane dall’essere garantite.

La tregua, nella pratica, è diventata un labirinto amministrativo: valichi che aprono e chiudono, liste di beni ammesse o escluse, ispezioni che si protraggono, richieste di dati, controlli sui dipendenti delle ONG, convogli deviati su strade più lunghe e meno sicure. Per la ONU, il percorso obbligato lungo il Philadelphi Corridor e la Coastal Road limita i volumi, aumenta i rischi di saccheggi e rallenta tutto. Sul fronte dei ripari, poi, la contraddizione è evidente: fornitori con migliaia di tende e prefabbricati pronti, ma autorizzazioni ridotte a numeri simbolici. Intanto i materiali temporanei, progettati per durare pochi mesi, si consumano prima che arrivi il ricambio.

Sul piano giuridico, le disposizioni della CIG sono chiare: garantire aiuti e prevenire atti contemplati dalla Convenzione sul genocidio. Ma la realtà osservabile parla altro: malnutrizione diffusa, sanità frammentata, ricostruzione impossibile. A tutto questo si somma la geografia forzata del dopo-tregua: la maggior parte della popolazione compressa in meno della metà della Striscia, spostamenti multipli, impossibilità di tornare nei quartieri del nord, vaste zone vietate. In queste condizioni, ricostruire non è solo un problema di mattoni: è un problema di spazio, accesso, governance.

Tra i pochi numeri che l’opinione pubblica ha imparato a riconoscere c’è 600: i camion previsti ogni giorno. È una soglia minima, basata su parametri sanitari e nutrizionali. Scendere sotto questa cifra significa ridurre le razioni alimentari, rinviare interventi chirurgici, allungare le file per l’acqua potabile, ritardare di settimane la consegna di tende o kit d’emergenza. Quando i camion diventano 100 o 200, non si rallenta l’assistenza: si produce danno.

Le mappe dell’UNOSAT non misurano soltanto la distruzione: dicono dove servono interventi prioritari, soprattutto nelle zone di Gaza City, Rafah e Khan Younis, dove si concentra oltre il 60% degli edifici colpiti. Rimettere in funzione reti idriche, fognarie, elettriche è il primo passo. Ma la rimozione delle macerie richiede macchinari, carburante, sicurezza e autorizzazioni: proprio ciò che manca.

Con un PIL pro capite crollato a 161 dollari, non basta abbassare i prezzi del pane. Servono valichi aperti, materiali da costruzione, scuole sicure, ospedali funzionanti, una bonifica sistematica delle macerie. L’ONU parla di decenni e di un costo immenso. Senza un cessate il fuoco verificabile, un monitoraggio indipendente degli aiuti e un quadro politico condiviso, la ricostruzione resterà un progetto sulla carta.

Nel definire ciò che accade, le parole contano. Quando Amnesty International usa il termine “genocidio”, lo fa collegando intento, atti e condizioni di vita imposte. Non è una sentenza – quella spetta ai giudici – ma una qualificazione giuridica fondata, che richiama obblighi internazionali: prevenire, non solo punire. La tregua non attenua questo dovere: lo rende più urgente. Perché quando i bombardamenti tacciono, l’arma può diventare il tempo, o la burocrazia.

Le cifre non consolano, ma mostrano con chiarezza che il dopoguerra non arriva da solo. Una tregua che non sblocca gli aiuti, che non permette la ricostruzione, che lascia la popolazione senza casa e senza servizi, non è pace: è sospensione. “Genocidio in corso”, scrive Amnesty, mentre la comunità internazionale continua a misurare camion e permessi. La verità è semplice: finché la coda dei camion resterà ferma al confine e le macerie saranno più alte dei banchi di scuola, a Gaza la vita non potrà ripartire. E sarà difficile sostenere che il mondo abbia davvero fatto tutto ciò che poteva.


Fonti utilizzate: Amnesty International; ONU; OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs); Corte Internazionale di Giustizia; UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development); UNOSAT (United Nations Satellite Centre); Shelter Cluster; Norwegian Refugee Council; Cluster Educazione.

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