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La strategia segreta di Trump che scuote l’Europa: “Fine della migrazione di massa”

Il nuovo documento della Casa Bianca parla di “scomparsa civile” dell’Europa e ridisegna la politica globale degli Stati Uniti. Numeri, reazioni e scenari: cosa cambia davvero

La strategia segreta di Trump che scuote l’Europa: “Fine della migrazione di massa”

Donald Trump

Una luce fredda taglia il perimetro della stanza mentre illumina la copia plastificata della nuova strategia nazionale appoggiata sul tavolo della West Wing: nelle righe evidenziate spiccano parole come “effacement civilisationnel”, “invasioni”, “fine della migrazione di massa”. È un documento che non lascia margini di interpretazione. Pubblicato il 5 dicembre 2025, mette per iscritto una visione che la Casa Bianca del presidente Donald Trump considera ormai centrale: l’Europa sarebbe a un bivio identitario e gli Stati Uniti, nel ridisegnare la loro postura globale, intendono muoversi dentro un perimetro più selettivo, sovranista, apertamente transazionale. Un testo che detta la linea su immigrazione, relazioni con Russia, Cina e alleati, politica economica e sicurezza nazionale, ma che soprattutto suona come un avvertimento: secondo Washington, il Vecchio Continente deve cambiare rotta o rassegnarsi a una “scomparsa civile”. La strategia – che ha già suscitato reazioni dure a Bruxelles, Berlino e Parigi – è diventata un oggetto di dibattito su entrambe le sponde dell’Atlantico.

La Casa Bianca presenta questa strategia come la carta fondamentale del secondo mandato di Donald Trump. È un testo-cornice, con valore sia politico sia operativo. Fissa una linea più assertiva nell’“emisfero occidentale”, ridimensiona l’ambizione di trasformare gli equilibri del Medio Oriente, propone un approccio “rapido e negoziale” alla guerra in Ucraina e soprattutto introduce una cesura profonda sul tema delle migrazioni. Il linguaggio è inusuale per un documento ufficiale: l’Unione Europea viene descritta come un continente “a rischio di erosione civilizzazionale”, accusato di “declino economico” e di “censura del dissenso”. Non manca l’invito esplicito a coltivare forme di resistenza dentro gli stessi Stati membri. A completare la cornice ci sono i riferimenti alla necessità di “reimpostare” il rapporto con la Russia e di rafforzare la deterrenza su Cina e Taiwan.

Il capitolo sull’immigrazione è il cuore politico dell’intero documento. Qui la Casa Bianca afferma che “le persone che un Paese accoglie, il loro numero e la loro provenienza determinano il suo futuro”. E sostiene che la cosiddetta “migrazione di massa” abbia ovunque “messo sotto pressione risorse, alimentato violenza, indebolito la coesione sociale, distorto i mercati del lavoro e compromesso la sicurezza nazionale”. La conclusione non ammette sfumature: “L’era della migrazione di massa deve finire”. Il controllo dei confini diventa così “asse della sicurezza nazionale”, con parole che riecheggiano gli ordini esecutivi firmati nel gennaio 2025, tra cui “Protecting the American People Against Invasion”, la strategia “Securing Our Borders” e la riallocazione del programma rifugiati. Tutti tasselli di un’architettura già avviata.

L’Europa è il vero bersaglio del documento. Le politiche migratorie europee vengono accusate di “trasformare il carattere del continente”, dentro un quadro narrativo che evoca tassi di natalità in discesa, perdita d’identità e rischio di “censura del dissenso”. La strategia arriva a ipotizzare che, “nel giro di vent’anni o meno”, alcuni alleati della NATOpotrebbero diventare “a maggioranza non europea”, elemento che secondo Washington inciderebbe sulla loro fedeltà strategica. Per molti osservatori europei il tono è “insolito e irritante”, tanto da aver già innescato una guerra semantica con Bruxelles.

In questo quadro, i numeri offrono una fotografia meno apocalittica. Nel 2024 gli attraversamenti irregolari dei confini esterni dell’UE sono diminuiti di circa il 38%, scendendo a poco più di 239.000, il minimo dal 2021. Nella prima metà del 2025 il calo è proseguito intorno al 20% su base annua, con forti contrazioni sulla rotta dei Balcani occidentali e del Mediterraneo orientale, mentre il Mediterraneo centrale e la rotta atlantica verso le Canarie mostrano oscillazioni più marcate. Gli sbarchi irregolari restano un indicatore imperfetto ma significativo: la geografia cambia, la tendenza generale è in diminuzione.

Lo stesso vale per le domande d’asilo. Nel 2024 le richieste “first time” nell’UE sono diminuite del 13%, scendendo da oltre un milione a circa 912.000. I siriani restano il primo gruppo, seguiti da venezuelani e afghani. È la prima flessione dal 2020. Germania, Spagna, Italia e Francia continuano ad accogliere la quota maggiore delle richieste.

Il dibattito europeo si inserisce però in una crisi globale dello sfollamento forzato. Tra fine 2024 e primavera 2025 il numero di persone costrette a lasciare la propria casa ha oscillato intorno ai 123 milioni, con una leggera riduzione verso i 122,1 milioni in aprile 2025: la prima inversione in più di un decennio. Di queste, 42,7 milioni sono rifugiati, 73,5 milioni sfollati interni e 8,4 milioni richiedenti asilo. Il 73% trova rifugio in Paesi a medio-basso reddito, spesso confinanti con le aree di crisi. Le emergenze in Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar e Ucrainarestano i principali motori della diaspora globale.

La strategia americana definisce la migrazione di massa come fattore destabilizzante per i mercati del lavoro. Gli studi comparati dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e alcune analisi della BCE(Banca Centrale Europea) restituiscono però un quadro più complesso. Nel triennio post-pandemico i lavoratori stranieri hanno coperto circa metà della crescita della forza lavoro nell’area euro, contribuendo ad attenuare le pressioni sui salari e a colmare carenze in settori come sanità, logistica, edilizia e agroalimentare. In Germania, senza l’apporto dei lavoratori nati all’estero, il PIL sarebbe stato più basso; Spagna e Francia mostrano dinamiche simili.

Nel biennio 2024-2025 l’occupazione degli immigrati nell’area OCSE rimane su livelli storicamente elevati, attorno al 71%, con una partecipazione al lavoro che raggiunge il 77%. La diminuzione dei flussi di migrazione per lavoro nel 2024 (circa -21%) è legata alla debolezza del ciclo economico e a politiche più restrittive in alcuni Paesi, ma il totale dei nuovi arrivi permanenti resta alto: 6,2 milioni, appena il 4% in meno dell’anno precedente e comunque il 15% in più rispetto al 2019. Non un quadro che giustifichi generalizzazioni drastiche.

Frontex

Sul fronte della sicurezza, la ricerca internazionale mette in guardia da letture semplificate. Le correlazioni tra povertà, esclusione e criminalità non equivalgono a un automatismo legato allo status migratorio. Nello stesso tempo, i dati europei mostrano che la riduzione delle irregolarità e l’investimento nell’integrazione lavorativa migliorano gli esiti nel medio periodo. L’OCSE documenta che, nei primi cinque anni, il divario retributivo tra immigrati e autoctoni si riduce di circa un terzo e di metà nell’arco di dieci anni, segno di progressiva mobilità settoriale.

Il documento della Casa Bianca non si limita al piano teorico, ma intreccia la retorica con atti già firmati: gli ordini “Securing Our Borders”, “Protecting the American People Against Invasion” e la ristrutturazione del programma rifugiati. È l’impianto di una “chiusura selettiva”, che punta a restringere i canali umanitari, rafforzare detenzione ed espulsioni e aumentare la pressione sui Paesi partner per bloccare le partenze. Sullo sfondo, una riedizione della dottrina Monroe applicata all’America Latina.

Il capitolo sull’Europa è il più controverso: il documento invoca la necessità di “coltivare resistenza” dentro gli Stati europei, sostenendo movimenti “sovranisti” e anti-UE. Molti governi considerano questa posizione un’ingerenza diretta. Eppure, lo stesso testo riconosce l’importanza strategica dell’Europa per gli Stati Uniti, “a condizione che resti europea” e recuperi una “fiducia civilizzazionale”. Una formula che rischia di aprire nuove fratture dentro la NATO e di complicare i rapporti con la Commissione Europea.

Eppure, i numeri richiedono una lettura diversa dal catastrofismo. Il calo delle traversate irregolari indica soprattutto una migliore capacità di interdizione, maggior cooperazione con Paesi di transito come Tunisia e Libia e un passaggio dall’emergenza alla gestione strutturata, che combina enforcement e integrazione. Il fenomeno globale dello sfollamento, al contrario, è alimentato da fattori – guerra, collassi istituzionali, crisi economiche – che nessuna potenza occidentale controlla davvero.

L’idea di “effacement civilisationnel” è un frame culturale, non una categoria demografica. La popolazione europea è invecchiata, la natalità cala, ma proprio questi elementi rendono l’immigrazione una leva necessaria per sostenere welfare, servizi e mercato del lavoro. La stessa BCE sottolinea l’apporto dei lavoratori stranieri alla stabilizzazione post-pandemica. La sfida non è decidere se aprire o chiudere, ma quali canali costruire e con quale velocità integrare chi arriva.

Le prime reazioni europee parlano di “tono ostile” e “accuse infondate”. Da Berlino a Parigi, la preoccupazione è che questo documento possa incrinare la fiducia interna all’alleanza e influire sui negoziati europei in corso, dal nuovo Patto su migrazione e asilo al mandato di Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Allo stesso tempo, alcune forze politiche interne ai Paesi membri potrebbero utilizzare la strategia americana per legittimare politiche più restrittive. Sullo sfondo resta il capitolo Ucraina, con il riferimento a una “fine rapida del conflitto” che rischia di scontrarsi con la posizione dei Paesi più esposti sul fronte orientale.

Il dibattito del 2026 sarà segnato da alcuni nodi chiave: il possibile allineamento tra la dottrina americana e le politiche di governi europei sempre più orientati verso accordi con Paesi terzi; l’impatto sulla riforma del Patto europeo su migrazione e asilo; la capacità dei numeri di Eurostat e Frontex di consolidare la percezione di un fenomeno in calo o, al contrario, di rimetterlo al centro della battaglia politica. Resta da capire se il richiamo all’“ordine” e alla “stabilità” conquisterà consenso presso opinioni pubbliche stanche di crisi ricorrenti.

La retorica della “fine della migrazione di massa” risponde a un obiettivo politico preciso: riportare la sicurezza dentro il perimetro della sovranità nazionale e marcare una distinzione identitaria con l’Europa. Ma le economie avanzate, Europa in testa, restano dipendenti dalla mobilità internazionale. I dati non legittimano l’idea di un assalto permanente: gli ingressi irregolari sono diminuiti nel 2024 e nella prima metà del 2025, le domande d’asilo hanno registrato la prima flessione dal 2020, e l’apporto dei lavoratori stranieri è stato decisivo per la crescita e per la disinflazione post-pandemica. La sfida, per Washington e Bruxelles, resta la stessa: governare il fenomeno conciliando sicurezza, diritti e interesse economico. Insomma, non si tratta di negare la migrazione, ma di riconoscere che il modo in cui la si regola segnerà la tenuta delle democrazie nei prossimi anni.


Fonti utilizzate: Casa Bianca, Eurostat, Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), OCSE(Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), BCE (Banca Centrale Europea), UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), analisi di centri studi europei e statunitensi, documenti ufficiali dell’Amministrazione Donald Trump.

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