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Tajastrass, Biautagambe e Barbabocchi: il Canavese che vive nei suoi soprannomi

Tra ironia popolare, antiche Badie, leggende e identità comunitarie, il viaggio raccontato da Giorgio Cortese svela un Canavese che non si limita a ricordare il proprio passato: lo custodisce, lo celebra e lo trasmette come patrimonio vivo.

Tajastrass, Biautagambe e Barbabocchi: il Canavese che vive nei suoi soprannomi

Tajastrass, Biautagambe e Barbabocchi: il Canavese che vive nei suoi soprannomi

Mercoledì 3 dicembre, nel salone EX Valle Susa di Rivarolo Canavese, Giorgio Cortese ha accompagnato soci e appassionati in un viaggio affascinante nel cuore più autentico del Canavese, là dove i soprannomi non erano soltanto etichette, ma cronache viventi, frammenti di carattere e orgoglio. Un sentito ringraziamento va al Direttivo e al Presidente Silva Claudio dell’Unitre di Rivarolo, Favria e Feletto per l’invito e la calorosa accoglienza.

Ogni paese del Canavese aveva un soprannome. A volte pungente, altre volte poetico, sempre capace di raccontare meglio di qualsiasi descrizione ufficiale l’anima di una comunità. A Favria erano i tajastrass, a Rivarolo i biautagambe, a Feletto i barbabocchi, ranè o papalin; a Rivarossa i carossin; a Ciconio e Ozegna i gavasson. In ogni nome viveva un modo di ridere insieme, di riconoscersi, di sentirsi parte di un luogo.

Rivarolo Canavese – Rivareul in piemontese – affonda le sue radici nell’età preromana, come dimostrano i ritrovamenti nella pieve di San Cassiano, centro religioso e civile per secoli. Nel Medioevo appartenne ai San Martino, agli Acaja e poi ai Savoia, che ne consolidarono il ruolo strategico. I rivarolesi, soprannominati biautagambe, erano noti per sedersi sul ponticello del canale lasciando penzolare le gambe, e per una fama – vera o presunta – di gambe lunghe ed eleganti. Il gallo sul campanile di San Giacomo e nello stemma comunale, con la scritta “Vigilantia”, simboleggia fierezza e senso civico. La Badia di Rivarolo, attestata dal 1584, era una confraternita giovanile che organizzava feste, manteneva l’ordine e custodiva un forte legame comunitario.

Feletto, o Flet, lega la propria storia all’Abbazia di Fruttuaria. I suoi abitanti erano detti papalin per il rapporto con i monaci, e barbabocchi dalla poetica “Festa dei Barbabocchi”, che fino al Settecento animava il paese con danze, fiori e ritualità tra sacro e profano. Lo stemma del 1938 – cinque lance d’azzurro con banderuole su campo rosso – è una sintesi di devozione, lavoro e identità condivisa.

Favria, la terra dei favriot, conserva memorie romane e medievali. Il soprannome tajastrass potrebbe derivare dal taglio del formaggio fresco, dalla lavorazione delle pelli o dalle bonarie chiacchiere di cortile. Favria è anche patria di Badie e Compagnie dei Folli, istituzioni popolari che eleggevano un Abbate e organizzavano feste, riti burleschi e matrimoni simbolici. La tradizione del ciamà l’erba, preghiera laica di marzo per risvegliare la natura, racconta un equilibrio unico tra ironia, devozione e radici agricole.

Rivarossa – Rivarusa – deve il soprannome carossin ai carradori, gli artigiani che costruivano i carri; Ciconio e Ozegna condividono i gavasson, appellativi nati tra rivalità contadine e ironia popolare. Salassa, immersa tra vigne e legumi, ha generato il soprannome fasulè, legato alla coltivazione del fagiolo e alle sue feste medievali. Oglianico, citato già nel 1110, custodisce un ricetto medievale e una Badia che organizzava la festa del Calendimaggio, con la celebre alzata dell’Abà e l’albero di rovere, simbolo di autonomia civica. San Ponso, sorto su insediamenti romani, è all’origine dei ranér, i raccoglitori di rane; Bosconero, circondato dalla Silva Gerulfa, ha nei plareuj (i funghi prataioli) il suo simbolo identitario; Busano, attraversato dal Viana, conserva soprannomi legati ai mestieri e alle feste civiche delle antiche Badie.

Rivara, un tempo Riparia, ha dato vita agli strasapapé, celebri per aver strappato un atto notarile ingiusto: un gesto diventato leggenda popolare. Il borgo, feudo dei Valperga, vantava una Badia potente, persino armata, che sopravvive ancora nei riti carnevaleschi. Forno Canavese, legato alla calce, ha generato soprannomi come brusatà o fasulè; Valperga, con i suoi tre castelli, conserva memorie di Badie e feste secolari. Agliè, nobile paese con radici romane, ospitava cinque Badie e soprannomi come òloch, nati da racconti e leggende locali. Anche Bairo, Baldissero, Barbania e Lombardore tramandano nomi e simboli che rievocano mestieri, riti civici e appartenenze collettive. Front con gli nebià, Lusigliè con i barbabuch, Canischio con i cuciater, Caluso con i bambas, Frassinetto con gli uluch, Pont Canavese con i peilcan e i picapere: ogni borgo è un universo a sé, costruito di memoria, lavoro e ironia.

Sparone, arroccato nella Valle dell’Orco, evoca Arduino d’Ivrea e le sue resistenze. I soprannomi castagnè e gavassè richiamano boschi di castagni e storie popolari. La Badia locale, documentata tra Seicento e Settecento, esercitava poteri civici e persino militari. Locana, con le sue novanta borgate, è un arcipelago di mestieri e leggende: i magnin, stagnini ambulanti, hanno lasciato un’impronta profonda nel costume popolare. Ceresole Reale, borgo “alto” della valle, custodisce memorie di miniere, laghi naturali e soprannomi come biro. Quagliuzzo – Quajuss – lega le sue storie a Arduino e ai cappellani cacciatori; Ribordone, terra di santuari, Pian d’le Masche e rivolte contadine, celebra ritmi agricoli come la pianta faseuj. Rocca Canavese, arroccata sul dirupo, ha dato i brusatón; Ronco Canavese è ricordato per la piva e la sua cultura alpina. San Benigno, segnato dall’Abbazia di Fruttuaria e da radici celtiche, conserva i papinòit e gli gnocaté, soprannomi che parlano di cucina, fatica e fede.

"Abbiamo sorriso, insieme, ripescando un tempo in cui bastava un nomignolo per descrivere un paese intero, per raccontare con affetto e ironia l’indole della sua gente - commenta Cortese - Tajastrass, biautagambe, barbabocchi e gli altri soprannomi che riempiono queste storie ci restituiscono il ritratto di un Canavese genuino, arguto, comunitario. Una terra dove ridere insieme era un modo semplice e profondissimo di riconoscersi. Conservare la memoria di quei nomi significa custodire ciò che siamo: identità, ironia, umanità. È un richiamo alla nostra appartenenza, a un luogo e a un tempo che continuano a vivere grazie alle persone che lo abitano. Oggi, mentre la modernità accelera e tutto sembra scorrere troppo in fretta, quelle parole diventano ancora più preziose. Ogni tajastrass, ogni biautagambe, ogni barbabocchi ci ricorda che siamo parte di un mosaico di radici e legami. Preservare queste memorie non è nostalgia: è un atto d’amore verso la nostra terra e verso il futuro. Che siate tajastrass, biautagambe o barbabocchi, ricordatevi che dietro ogni soprannome c’è una storia. Ed è l’insieme di tutte queste storie che fa, ancora oggi, il Canavese."

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