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05 Dicembre 2025 - 19:29
Andrea Moretto
C’è chi vive il Carnevale di Ivrea aspettando la battaglia delle arance, e poi c’è chi, come Andrea Moretto, il Carnevale lo insegue tutto l’anno, lo smonta, lo studia, lo reinventa, lo rimette insieme come fosse un ingranaggio di quelli che lui conosce bene. Non riesce a starne lontano: per lui la festa non è un appuntamento annuale, è una forma mentis, un modo di guardare il mondo.
Ci ha già giocato, letteralmente, quando qualche tempo fa inventò “Al’èturnacarlevé”, un gioco da tavolo ispirato al Monopoli, dove al posto dei viali e delle stazioni c’erano i luoghi simbolo della tradizione eporediese, i personaggi, i rituali, le situazioni che chi è nato qui riconosce dal primo sguardo. Un gioco fatto per ridere, ricordare, competere un po’ e soprattutto per dire: “Questo è il nostro Carnevale, questa è la nostra città.”

Ma evidentemente non gli bastava. Le idee di Moretto hanno la strana abitudine di ripresentarsi, di bussare alla porta finché non trovano una forma. Così, dopo aver trasformato la festa più antica del Canavese in un tabellone da attraversare con pedine e imprevisti, ha deciso di fare un passo ulteriore: prendere l’essenza stessa del Carnevale e chiuderla in un mazzo di carte. Carte vere, da gioco, di quelle che si consumano ai bordi perché girano tra le dita, tra una briscola e una scopa, tra risate e silenzi. Ma stavolta in quelle carte non ci sono Re, Regine o Fanti: ci sono i protagonisti di Ivrea.
Sul tavolo, stese una accanto all’altra, le carte sembrano già un corteo. Il Generale prende il posto del Re, la Mugnaia, luminosa e intoccabile, diventa la Regina il Sostituto del Gran Cancelliere, l’Alfiere.
E poi Abbà, pifferi, militi, vivandiere, aranceri, ognuno calato nel seme che gli assomiglia di più. Nelle carte ci sono, simboli, squadre, piccoli dettagli che solo un eporediese può riconoscere senza leggere.
È curioso pensare come Moretto riesca ogni volta a prendere un universo complesso e a ridurlo a un oggetto semplice senza perderne il cuore. Lo faceva quando costruiva caffettiere funzionanti in scala ridotta — la più piccola del mondo è ancora lì, un minuscolo prodigio di metallo che lui ha realizzato pezzo per pezzo — e lo fa adesso con queste carte. Ogni volta sembra dire che non serve un grande spazio per raccontare una grande storia: basta saper scegliere il linguaggio giusto.
E il Carnevale, in fondo, è sempre stato un linguaggio. Fatto di gesti, di simboli, di colori, di ruoli che cambiano e si tramandano. Un linguaggio che Moretto conosce bene, e che traduce in oggetti che parlano a tutti: a chi la festa la vive da generazioni e a chi la guarda da fuori, incuriosito, cercando di capire perché gli eporediesi si commuovano ancora davanti a un sorriso della Mugnaia o al passo cadenzato dei Pifferi.
Le carte, ora, sono lì. Pronte a essere mescolate, tagliate, distribuite. Pronte a entrare nelle case, nei bar, nei salotti, nelle tasche. Pronte a trasformare una briscola in un racconto, una partita in un ricordo. Pronte a fare ciò che il Carnevale fa da secoli: unire le persone attraverso un rito, anche quando il rito cambia forma.
E forse questa è la magia più grande di Andrea Moretto: ricordarci che il Carnevale non vive solo nelle strade di Ivrea. Può vivere in un tabellone, in una caffettiera di un centimetro, in un mazzo di carte. Può vivere ovunque qualcuno abbia abbastanza immaginazione per rimetterlo in gioco.
Insomma, basta mischiare. E il Carnevale ritorna. Sempre.
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