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05 Dicembre 2025 - 11:53
Torino, carabiniere in terapia intensiva: incidente durante un inseguimento
A una certa ora del pomeriggio il bosco di Braccano, frazione di Matelica, si chiude in un silenzio che sa di resa, poi tra i rovi spunta un filo teso: non il segno di un sentiero, ma il cappio di un tentativo disperato. A pochi metri, un corpo riverso a terra. Un cacciatore si ferma, capisce subito che non è un’escursione finita male, chiama aiuto. Così termina la fuga di Nazif Muslija, 50 anni, ricercato da più di trenta ore per l’omicidio della moglie Sadjide Muslija, uccisa a Pianello Vallesina, nel comune di Monte Roberto. Secondo gli inquirenti avrebbe cercato di impiccarsi. I sanitari del 118 lo stabilizzano e lo trasportano all’ospedale di Camerino: è grave, ma non in pericolo di vita. Poco lontano, i carabinieri trovano una Smart bianca, la stessa con cui l’uomo era sparito dopo il delitto. La Procura di Ancona ha già emesso un mandato di fermo internazionale per omicidio volontario aggravato. All’esterno della casa della vittima, i militari repertano un tubo di ferro da cantiere con tracce di sangue: un possibile corpo contundente, ancora in attesa della conferma che solo gli accertamenti tecnici potranno dare.
La mattina del 3 dicembre i carabinieri scoprono il corpo di Sadjide Muslija nella camera da letto della casa di Pianello Vallesina. È distesa sul letto, il volto e il torace segnati da colpi violentissimi. A dare l’allarme è il datore di lavoro, insospettito dall’assenza della donna. Il Nucleo Investigativo e la Sis si concentrano sulle tracce ematiche, sulla cronologia del pestaggio — che potrebbe essere avvenuto all’alba — e sull’arma, mentre la fuga del marito diventa immediatamente la priorità. Il giorno successivo gli investigatori tornano sulla scena, recuperando quel tubo di ferro che appare un indizio forte, ma non ancora definitivo: impronte, DNA, pattern delle lesioni e autopsia dovranno dire se abbia colpito la vittima o se sia solo un oggetto contaminato. La prudenza, in questa fase, è un dovere.
La fuga di Nazif Muslija parte dalla Smart bianca e punta verso l’entroterra marchigiano. Le ricerche si allargano oltre i confini nazionali, con la Procura che teme un espatrio e attiva un mandato di fermo internazionale. L’auto viene ritrovata abbandonata in un’area impervia del territorio di Matelica. Da lì i carabinieri allargano il perimetro e nel bosco di Braccano individuano l’uomo, svenuto, con segni compatibili con un tentativo di impiccagione. L’allarme lo dà un cacciatore, attorno alle 16.30. L’uomo viene ricoverato a Camerino e piantonato: le condizioni sono serie, ma non critiche.
Il nome di Nazif Muslija non era uno sconosciuto negli uffici giudiziari. Nell’aprile 2025 aveva sfondato la porta della camera da letto impugnando un’ascia e aveva minacciato la moglie con accuse di tradimento e frasi di morte. Solo la presenza dei vicini aveva evitato il peggio. Per quell’episodio, a luglio, aveva patteggiato 1 anno e 10 mesi per maltrattamenti: pena sospesa a condizione che intraprendesse un percorso in un Centro per uomini autori di violenza (CUAV). Sessanta ore di incontri quindicinali per un anno, da avviare dopo il passaggio in giudicato della sentenza, avvenuto a settembre.
Ed è qui che si apre la ferita istituzionale. L’avvocato dell’uomo, Antonio Gagliardi, sostiene che “non c’era posto nella struttura indicata”. Parole che hanno scatenato polemiche. La procuratrice capo di Ancona, Monica Garulli, ha parlato di “amaro in bocca”, sottolineando come non tutti i casi siano uguali e come quello di Muslija avrebbe richiesto una priorità diversa. Il giudice indica l’obbligo in sentenza, ma l’avvio concreto del percorso dipende da organismi esterni: la capienza, le disponibilità, le graduatorie. E qui, in mezzo alle procedure, resta una zona grigia dove il rischio può crescere senza che nessuno abbia gli strumenti per contenerlo.
Il caso riporta al centro due nodi ormai strutturali: la valutazione tempestiva del rischio nelle situazioni di violenza domestica con escalation documentata e l’accesso immediato ai programmi per autori ad alta pericolosità. La presidente del Centro antiviolenza di Ancona, Roberta Montenovo, dell’associazione Donne e Giustizia, avverte che servono misure più mirate “anche in attesa dell’avvio di qualsiasi percorso”, perché esistono fasi in cui il rischio si impenna e la protezione va anticipata. È un tema che intreccia protocolli, risorse, coordinamento tra servizi.
I fatti accertati finora compongono un quadro chiaro: Sadjide Muslija, poco meno di cinquant’anni, è stata uccisa nella sua casa a Pianello Vallesina; il marito Nazif Muslija è il principale sospettato; aveva precedenti per maltrattamenti; è stato trovato gravemente ferito dopo un tentativo di suicidio; la Smart usata per la fuga è stata individuata a breve distanza; la Procura ha emesso un fermo internazionale; un tubo di ferro è stato repertato come possibile arma; nuovi rilievi e autopsia sono in corso. Restano invece da chiarire la sequenza temporale dell’aggressione, la compatibilità del tubo con le lesioni, eventuali tracce utili a ricostruire i movimenti dell’indagato e, soprattutto, i passaggi tra decisione giudiziaria, presa in carico e monitoraggio del soggetto.
A Monte Roberto la coppia era considerata riservata, ma le denunce, l’ascia, le minacce erano la prova di una escalation. Oggi la comunità si chiede quali segnali siano stati davvero letti e quali strumenti avrebbero potuto proteggere la vittima. Serve un coordinamento che spesso resta sulla carta: procure, forze dell’ordine, servizi sociali, sanità, centri antiviolenza. La magistratura ricorda i limiti normativi; il terzo settore insiste sulla necessità di coperture immediate nelle fasi critiche. È un confronto che non riguarda solo questo caso, ma il funzionamento stesso del sistema. Perché prescrivere un trattamento non basta: bisogna garantirne l’accesso, soprattutto quando la storia personale annuncia un rischio imminente.
Le indagini proseguono su più fronti: l’autopsia dovrà definire la natura delle lesioni e la tempistica della morte; i tecnici lavorano sul tubo di ferro alla ricerca di microtracce, DNA, impronte; gli esperti digitali analizzano telefoni, celle e telecamere; la Smart verrà esaminata per ricostruire gli spostamenti; familiari e conoscenti verranno ascoltati. È un mosaico ancora in costruzione, dove ogni tessera pesa.
Intanto un dato resta indiscutibile: i femminicidi non sono incidenti, ma espressioni di un fenomeno strutturale. Nel caso di Sadjide, le parole-chiave della discussione pubblica tornano tutte: escalation, rischio, protezione, continuità, programmi per autori. Ogni rallentamento — un posto che manca, una comunicazione che salta, una priorità non riconosciuta — può trasformarsi in una falla. E quando la falla si apre, è troppo spesso la vita di una donna a pagare.
Il numero 1522, attivo 24 ore su 24, resta lo strumento più immediato per chiedere aiuto: gratuito, multilingue, anonimo, capace di orientare verso i centri antiviolenza. In emergenza, il 112 deve essere chiamato senza esitazioni. Anche un dubbio, se condiviso con un’operatrice, può diventare un piano di sicurezza.
La Procura di Ancona ha contestato l’omicidio volontario aggravato e ha attivato un mandato di fermo internazionale. L’indagato, ricoverato, è piantonato in ospedale in attesa delle decisioni giudiziarie. Ma la fotografia rimane provvisoria, in attesa delle verifiche medico-legali. I tasselli già emersi — il bosco, la Smart, il tubo, i precedenti, la fuga, il tentato suicidio — puntano verso un quadro coerente, ma la scienza forense ha bisogno dei suoi tempi.
C’è però una lezione che non può aspettare: la priorità di accesso ai programmi per autori ad alto rischio e il rafforzamento della protezione nelle fasi più delicate non sono dettagli burocratici. Sono l’unico varco possibile per fermare la spirale della violenza prima che diventi un omicidio. Vale oggi, e non solo per la storia di Sadjide Muslija.
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