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Strage nel campo di tende a Gaza: cinque morti, due bambini. Cosa è davvero successo ad Al-Mawasi

Le fiamme divorano il campo degli sfollati in pochi secondi. Cinque vittime, 32 feriti, accuse incrociate tra Difesa civile di Gaza e Israele. Nella “zona umanitaria” che doveva essere sicura, ancora una volta non lo era

Strage nel campo di tende a Gaza: cinque morti, due bambini. Cosa è davvero successo ad Al-Mawasi

Strage nel campo di tende a Gaza: cinque morti, due bambini. Cosa è davvero successo ad Al-Mawasi

All’inizio sono fiamme, non esplosioni. I teloni di plastica prendono fuoco in una manciata di secondi e le tende di un campo di sfollati diventano un braciere. Quando i soccorritori riescono ad aprirsi un varco, per cinque persone — tra cui due bambini — è già tardi. Altre 32 sono ferite. La ricostruzione, fornita da un medico del Kuwait Specialized Field Hospital — un ospedale da campo affacciato sul litorale di Al-Mawasi, a ovest di Khan Younis — restituisce l’ennesima immagine di una guerra che continua a mordere anche in presenza di una tregua dichiarata. La Difesa civile di Gaza parla di tende colpite “con più missili”. L’esercito israeliano, le Israel Defense Forces, sostiene invece di aver mirato a un “terrorista di Hamas” dopo un precedente scontro in cui cinque soldati erano rimasti feriti.

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Il luogo dell’attacco è la parte meridionale della Striscia di Gaza, un’area di Al-Mawasi indicata per mesi come zona di riparo per sfollati. Il bilancio di “cinque morti, trentadue feriti” citato dal medico coincide con i dati diffusi dai soccorritori e rilanciati da diverse testate internazionali. Le immagini circolate dopo il raid mostrano teloni bruciati, pali contorti, terreno annerito. La Difesa civile insiste sulla presenza di più missili, mentre l’IDF ribadisce che l’obiettivo sarebbe stato un militante di Hamas, una risposta al ferimento dei cinque soldati. Se questa dinamica venisse confermata, la posizione dell’attacco riaprirebbe una domanda cruciale: come può una zona etichettata come “umanitaria” essere al tempo stesso un luogo di riparo e un bersaglio operativo? Già nel 2024, e poi ancora nel 2025, aree di Al-Mawasi erano state coinvolte in attacchi con vittime civili, gettando ombre sulla reale protezione offerta agli sfollati.

Il Kuwait Specialized Field Hospital, cui fa capo il medico che ha diffuso il bilancio, è una delle poche strutture sanitarie operative lungo la costa. Negli ultimi mesi ha ridotto più volte i servizi a causa della penuria di forniture e farmaci, come indicato da numerose fonti umanitarie. Una comunicazione interna di settembre descriveva così la situazione: “Programmare chirurgia? Impossibile. Restano solo le urgenze salvavita”, citando la mancanza cronica di anestetici, antibiotici e materiale sterile.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il sistema sanitario di Gaza resta “al limite della rottura”: solo una parte degli ospedali è pienamente operativa, oltre il 90% delle strutture risulta danneggiato e il flusso di feriti continua senza sosta. In un contesto simile, dicono gli esperti dell’OMS, ogni nuovo picco di vittime diventa quasi ingestibile.

La narrazione ufficiale parla di una tregua in vigore dal 10 ottobre 2025. Ma i numeri raccontano altro. Il Washington Post riferisce di almeno 345 palestinesi uccisi in attacchi o scontri successivi all’entrata in vigore della tregua; altre testate parlano di oltre 300 vittime nello stesso arco di tempo. Le differenze dipendono dalle fonti — Ministero della Sanità di Gaza, Difesa civile, Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e conteggi giornalistici — ma il quadro resta coerente: la tregua non ha fermato del tutto le ostilità né ha garantito la sicurezza dei civili.

Intanto, le Nazioni Unite hanno rinnovato critiche severe sulle modalità delle operazioni. Il segretario generale dell’ONU António Guterres ha definito “fondamentalmente sbagliata” la conduzione della guerra in relazione alla protezione dei civili, evocando possibili violazioni del diritto internazionale umanitario. Parole che hanno provocato l’immediata replica di Israele ai Palazzi di Vetro. L’attacco ad Al-Mawasi arriva dunque in un contesto in cui la presunta “zona sicura” è già stata, più volte, un luogo di vulnerabilità estrema. Nel 2024 un raid su un’area classificata come umanitaria aveva causato un incendio con un numero di vittime persino più alto. Nel 2025 diversi episodi hanno riguardato campi di sfollati o aree designate come rifugi, alimentando negli abitanti una percezione ormai diffusa: non esiste un posto davvero sicuro.

L’IDF sostiene spesso di colpire miliziani o infrastrutture di Hamas nascoste in prossimità delle aree civili. Le ONG replicano che l’uso di munizionamento esplosivo in zone densamente popolate ha un effetto inevitabilmente indiscriminato, soprattutto quando le abitazioni sono fatte di tende, bombole e stufe. Una sola scheggia può trasformare un’intera fila di ripari in una torcia.

La catena delle fonti disponibili è chiara: il bilancio arriva da un medico del Kuwait Field Hospital contattato dai colleghi di Le Monde; la Difesa civile parla di “più missili”; l’IDF rivendica un’azione mirata contro un membro di Hamas come risposta al ferimento dei cinque soldati. Tutte queste informazioni compaiono nei dispacci del 4 dicembre 2025 e trovano riscontro con fotografie e testimonianze sul posto. Il contesto sanitario — mancanza di farmaci, ospedali sovraccarichi, trasporti difficili — è documentato dall’OMS e dagli aggiornamenti di OCHA.

Per chi lavora tra le tende, il tempo è il primo nemico. Ogni minuto perso nel trasporto su strade sabbiose, tra check-point e convogli in attesa, diventa un’emorragia incontrollabile o un’ustione che peggiora. L’OMS segnala che solo 19 ospedali su 36 a Gaza sono ancora in grado di offrire servizi, e appena 12 garantiscono cure essenziali. In molte strutture, la chirurgia è limitata alle urgenze per carenza di anestetici. Al Kuwait Field Hospital, ormai, la regola è “solo emergenze”, con barelle nei corridoi e turni estenuanti.

Questa compressione delle capacità incide anche sulla lettura dei dati: quando i feriti non possono essere trattati rapidamente, aumentano le morti nelle ore successive, e le statistiche — già incomplete per la difficoltà di accesso — non riescono a restituire la gravità reale delle conseguenze, dalle invalidità permanenti alle amputazioni, fino agli esiti neurologici.

Sul piano politico, il raid di Al-Mawasi si inserisce in una cornice più ampia. Israele alterna attacchi mirati a presunti membri di Hamas a una strategia controversa di sostegno a milizie locali anti-Hamas. La morte, il 4 dicembre 2025, del leader tribale Yasser Abu Shabab, figura legata a una formazione anti-Hamas favorita da Israele, è stata letta come un colpo a quella strategia. Se le realtà locali considerate alleate non reggono, la promessa di sicurezza si incrina e aumenta il rischio di nuove tensioni interne. Un dettaglio tutt’altro che marginale per chi vive in un campo di tende: più frammentato è il controllo del territorio, più fragile è la protezione dei civili.

Nel frattempo, la discussione internazionale si fa sempre più accesa. Le parole del segretario generale Guterres, che definisce “fondamentalmente sbagliata” la conduzione della guerra, rilanciano l’idea che l’attuale fragile tregua — attraversata da continui episodi di violenza — non sia sostenibile né per il diritto umanitario né sul piano politico. Le organizzazioni umanitarie registrano violazioni quasi quotidiane, da Al-Mawasi a Khan Younis, da Gaza City al centro dell’enclave. In questi campi, anche un singolo missile “mirato” produce un danno collaterale che smette di essere collaterale quando la realtà è fatta di nylon e pali metallici.

Gli effetti a catena non riguardano solo i feriti: i rapporti di OCHA descrivono scuole temporanee da riparare dopo le inondazioni, tende da sostituire, acqua potabile che scarseggia, evacuazioni di pazienti vulnerabili che procedono goccia a goccia. Un singolo attacco a poche decine di metri da uno spazio educativo temporaneo o da una clinica fa arretrare di settimane il tentativo di restituire un frammento di normalità ai bambini e alle famiglie.

Dal punto di vista del diritto internazionale umanitario, i principi della distinzione, della proporzionalità e della precauzione impongono di valutare obiettivi, mezzi e metodi d’attacco in relazione all’ambiente circostante. L’uso di munizioni esplosive in un campo di sfollati innalza la prevedibilità del danno ai civili. È su questo rapporto tra contesto e prevedibilità che si misura la responsabilità giuridica, e che in futuro potrebbe essere valutata l’ipotesi di crimini di guerra. Le recenti prese di posizione dell’ONU indicano che questo processo, almeno sul piano politico e morale, è già in corso.

In un quadro così opaco resta una domanda semplice e scomoda: che cosa serve, adesso? Un’indagine indipendente che accerti con precisione la dinamica dell’attacco, l’accesso al cratere, alle schegge, alle telemetrie; corridoi umanitari realmente funzionanti, perché il tempo di evacuazione può decidere la sopravvivenza; un impegno politico concreto che renda verificabile la tregua sul terreno, evitando che le versioni contrapposte sostituiscano gli accertamenti.

Perché questa notizia conta? Perché, oltre ai numeri — cinque morti, due bambini, 32 feriti — l’episodio ribadisce un fatto fondamentale: chiamare “umanitarie” certe aree non le rende automaticamente sicure. Se la protezione dei civili è il metro per valutare la serietà di una tregua, gli attacchi alle tende ne smentiscono l’essenza. Dopo ventisei mesi di guerra, la domanda non è più solo “quando finirà?”, ma come si vive — e spesso come si muore — in un luogo dove anche il nylon brucia in un istante.

Finché restano irrisolti gli interrogativi su frammenti di ordigni, finestre temporali dei trasferimenti sanitari ed esiti medico-legali, il racconto degli sfollati continuerà a essere pieno di vuoti. Ma una certezza rimane: in un campo di tende, ogni missile — anche definito “mirato” — può diventare una miccia collettiva. E nelle cronache del 4 dicembre 2025, quelle cinque vite bruciate a Al-Mawasi resteranno una ferita aperta, simbolo di una protezione promessa e non mantenuta.

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