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Così la Russia strangola il Donbas mentre l’Occidente discute: il racconto dal fronte

Evacuazioni impossibili, città svuotate, pressioni diplomatiche e un negoziato che rischia di lasciare Kyiv sola: il racconto delle ultime ore nel Donbas tra avanzate russe, allarmi europei e la frase che tormenta chi è rimasto sotto le bombe

Così la Russia strangola il Donbas mentre l’Occidente discute: il racconto dal fronte

Così la Russia strangola il Donbas mentre l’Occidente discute: il racconto dal fronte

La sera in cui la luce è scomparsa per l’ennesima volta, in un seminterrato di Dobropillja qualcuno ha acceso una stufetta da campo e mormorato a bassa voce: “Che finisca. Non importa come”. Fuori, sulla piazza dove un centro commerciale colpito a metà luglio ha lasciato un cratere grande come un isolato, il vento trascinava vetri rotti che suonavano come conchiglie. La città che un tempo viveva del lavoro di migliaia di minatori e del via vai dei pullman oggi è una geografia svuotata: case murate, cortili invasi dai detriti, scuole sbarrate, un sottofondo di droni e bombe plananti che scandisce le giornate. Chi è rimasto – qualche anziano, famiglie troppo povere o troppo isolate per andarsene – parla sottovoce. Ogni rumore potrebbe essere l’ultimo. E ogni ora scava più a fondo una parola che nessuno vuole pronunciare: abbandono.

Il rientro improvviso del presidente Volodymyr Zelensky ha aggiunto tensione a un quadro già in bilico. Il suo volo è rientrato d’urgenza dopo che il previsto incontro a Bruxelles con gli emissari statunitensi Steve Witkoff e Jared Kushner è stato cancellato all’ultimo secondo. I due, reduci da un colloquio di cinque ore al Cremlino, sono tornati direttamente negli Stati Uniti senza passare dall’Europa né da Kyiv, un gesto diplomatico che ha fatto rumore. A segnalare l’improvviso cambio di programma è stato, tra gli altri, il Kyiv Post, spiegando come il mancato incontro abbia acceso interrogativi tra gli alleati sulla centralità ucraina nella trattativa e sulle reali intenzioni di Washington.

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Nelle ore successive, secondo ricostruzioni di Reuters e del Guardian, una telefonata tra diversi leader europei ha restituito un quadro ancora più complicato. Il presidente Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Friedrich Merzavrebbero avvertito Zelensky del rischio che gli Stati Uniti puntino a una pace “al ribasso”, con possibili concessioni territoriali nel Donbas in cambio di garanzie non meglio definite. Una prospettiva che per Kyiv rappresenta una linea invalicabile.

Intanto, da Mosca, il presidente Vladimir Putin ha ribadito che la Russia vuole il controllo totale del Donbas – Donetsk e Luhansk“militarmente o attraverso il ritiro delle forze ucraine”. È un ultimatum che Kyiv respinge ma che trova conferma nella nuova campagna russa di interdizione aerea: più droni Shahed, più bombe plananti a lungo raggio, più colpi sulle retrovie logistiche per rallentare i rifornimenti e indebolire la tenuta del fronte prima dell’arrivo della fanteria. Gli analisti di ISW (Institute for the Study of War) e Critical Threats parlano di un uso “massiccio” di ordigni plananti e di una produzione russa di droni destinata a crescere nel 2025. L’obiettivo è erodere la resistenza attraverso una pressione continua.

Lo si vede chiaramente nella fascia Pokrovsk–Dobropillja–Kostiantynivka, dove si sono concentrati gli attacchi a ponti, convogli, nodi ferroviari e depositi di carburante. Le inchieste del Guardian e i video raccolti da Reuters sugli ultimi raid mostrano un metodo preciso: colpire la ferrovia, da cui passa oltre il 60% delle merci ucraine. Se i treni rallentano, il fronte resta senza munizioni, carburante, generatori, ricambi. E cede.

Negli ultimi giorni la Russia ha rivendicato la presa di Pokrovsk – ex Krasnoarmeysk – definendola “conquistata” e determinante per avanzare verso Kramatorsk e Sloviansk. Kyiv non ha confermato la caduta definitiva, parlando di combattimenti in corso. A fine ottobre in città erano rimaste circa 1.256 persone, secondo fonti regionali, con evacuazioni quasi impossibili per il fuoco costante sulle vie di fuga. Il Guardian ha raccontato la “lenta morte” della città: niente elettricità, acqua o gas, servizi sanitari ridotti al minimo e centinaia di civili nei rifugi. Le valutazioni dell’UK Defence Intelligence la definiscono da mesi “fulcro logistico” e obiettivo primario dell’offensiva russa.

A pochi chilometri, Dobropillja è l’esempio di come una città possa sbiadire senza crollare del tutto. Un tempo contava 30.000 abitanti, soprattutto minatori. Oggi è diventata una linea del fronte che respira male: droni, artiglieria, bombe plananti. A luglio 2025 un ordigno ha distrutto il principale centro commerciale; nelle due settimane successive circa 1.250 persone sono state evacuate. Poi è arrivato l’ordine di evacuazione obbligatoria delle famiglie con bambini: almeno 928 minori solo nelle comunità di Dobropillja e Bilozerske, secondo i bollettini dell’Amministrazione militare di Donetsk.

La definizione “città fantasma” qui non è un’esagerazione. La stazione è chiusa, gli asili sbarrati, molte strade percorse solo dai team di evacuazione che cercano chi non può più restare. Eppure in mezzo alle macerie resiste un filo di normalità: un panificio che apre quando trova farina, una parrocchia che distribuisce cibo, un meccanico che ripara generatori cannibalizzando pezzi di fortuna. È una normalità quasi ostinata, un modo per dire che la città non è ancora del tutto perduta.

Gli analisti di ISW parlano di una tattica russa che punta meno ai grandi sfondamenti e più allo “strangolamento” della cintura difensiva ucraina attorno a Donetsk. Nella fascia tra Pokrovsk e Dobropillja si sperimentano infiltrazioni di piccoli gruppi, uso massiccio di droni e bombardamenti selettivi contro ogni GLOC – le “ground lines of communication”, le linee di rifornimento via terra. Nel luglio e agosto 2025 la Russia ha registrato avanzamenti vicino alla H-32 e alla direttrice verso Rodynske, cercando di spingere le linee ucraine sempre più a ovest.

I numeri confermano la pressione: il comando ucraino parla di oltre 150 scontri al giorno lungo il fronte e di un uso quotidiano di bombe plananti nell’ordine delle decine. Anche con la prudenza imposta dalla propaganda di guerra, la tendenza è evidente. Mosca vuole arrivare ai negoziati con un “fatto compiuto”.

Sul fronte diplomatico, l’assistente presidenziale russo Yury Ushakov ha fatto capire che su alcune proposte americane esiste margine di discussione, ma non sul nodo territoriale. Da Kyiv la risposta è stata netta: una pace basata sullo scambio di mappe senza garanzie di sicurezza non è pace. Nel frattempo, il mancato incontro tra Zelensky e gli emissari americani pesa come un segnale ambiguo, che in molte capitali europee viene interpretato come una mossa legata alla politica interna statunitense più che a una strategia negoziale coerente.

In Europa il timore condiviso è che un cessate il fuoco “rapido” possa congelare il conflitto in condizioni favorevoli a Mosca. Per questo cresce la pressione per utilizzare gli asset russi congelati a sostegno dell’Ucraina e per accelerare i piani di produzione di munizioni e sistemi di difesa.

La frase raccolta nel seminterrato di Dobropillja – “Non importa come” – non è un invito alla resa. È la stanchezza di chi da quasi quattro anni vive nell’incertezza. Significa volere una vita elementare: rivedere i figli evacuati mesi fa, ricevere cure senza attraversare zone colpite dai droni, accendere una lampadina senza pregare che il generatore regga. Per gli operatori umanitari significa aprire corridoi di evacuazione sicuri; per i soldati, ruotare i reparti senza subire perdite inutili. Ma per chi studia il diritto internazionale il “come” è fondamentale: se una pace improvvisata diventa annessione di fatto, deportazione di civili, sostituzione amministrativa, allora il prezzo pagato rischia di essere irreversibile.

Le cifre civili parlano chiaro: nelle aree di Donetsk controllate da Kyiv vivono ancora tra 200.000 e 300.000 persone, un dato che oscilla con le evacuazioni. A Kostiantynivka migliaia di residenti sono senza servizi essenziali; a Pokrovsk, per settimane, i mille e poco più rimasti hanno vissuto sottoterra. Le immagini diffuse dalla Russia con bandiere issate nel centro di Pokrovsk sono state seguite dalla risposta cauta di Kyiv: “operazioni in corso”, “ripiegamenti tattici”, “fuoco di contenimento”. La verità, come spesso accade, è nel mezzo: linee che si sfilacciano, isolati che cambiano controllo, intere zone dichiarate “grigie”. Il costo umano è altissimo: migliaia di vittime negli ultimi mesi, secondo le stime più prudenti.

In un rifugio di Dobropillja, una radio gracchia notizie spezzate: “Zelensky è tornato”, “Pokrovsk resiste”, “gli americani ci riproveranno la prossima settimana”. Qualcuno alza le spalle. Poi un boato lontano, un attimo di silenzio. E quella frase che ritorna: “Che finisca”. Il dovere di chi racconta è aggiungere l’altra metà: “Ma nel modo giusto”. Perché in questo pezzo d’Europa la pace non è un concetto astratto. È un convoglio che arriva, una telefonata che non cade, una lampada che si accende, un bambino che torna a casa. È la soglia oltre la quale una città può smettere di essere un’ombra e tornare a essere soltanto una città.


Fonti utilizzate: Kyiv Post; Reuters; The Guardian; ISW (Institute for the Study of War); Critical Threats; UK Defence Intelligence.

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