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MH370: Undici anni di buio. Ora l’ultima caccia nel mare che inghiotte tutto

Dal 30 dicembre 2025 i robot di Ocean Infinity tornano nell’Oceano Indiano: 15mila km² di fondale da spogliare per capire come può sparire un Boeing 777 nell’era dei satelliti. Nessun pagamento se non si trova nulla, 70 milioni di dollari se si trova la verità.

LIBORIO NON TOCCARE  MH370, il ritorno in mare aperto: perché la caccia all’aereo “impossibile” riparte ora e cosa cambierà davvero

All’alba, il mare a sud-ovest dell’Australia è una carta geografica senza margini, un orizzonte che pare cancellare persino il rumore della memoria. Le onde riscrivono il presente a ogni respiro e il vento soffoca ogni traccia. È in questo vuoto remoto – una porzione di circa 15mila chilometri quadrati nel settore meridionale dell’Oceano Indiano – che dal 30 dicembre 2025 torneranno a muoversi i robot subacquei della società statunitense Ocean Infinity, impegnati ancora una volta in una delle ricerche più complesse dell’aviazione moderna: ritrovare il Boeing 777 del volo MH370della Malaysia Airlines, scomparso l’8 marzo 2014 con 239 persone a bordo. I familiari lo ripetono da anni: «È inconcepibile, oggi, non sapere cosa sia accaduto a quell’aereo». Questa volta, assicurano da Kuala Lumpur, l’operazione riparte con una finestra tecnica più stretta, strumenti più evoluti e un contratto senza ambiguità: “no find, no fee”, nessun pagamento se non si trova nulla, fino a 70 milioni di dollari solo in caso di individuazione di relitti significativi. A guidare la missione sarà la stessa compagnia che già nel 2018 scandagliò un’area immensa senza esito, ma con tecnologie che, spiegano gli ingegneri, oggi rappresentano di fatto un nuovo standard operativo.

La novità principale arriva dal governo della Malesia, che tramite il Ministero dei Trasporti ha confermato l’avvio delle operazioni, indicando una finestra operativa di 55 giorni totali, distribuiti in base alle condizioni meteo dell’oceano australe. La zona individuata è frutto di una revisione congiunta di analisi satellitari, traiettorie probabili ricostruite dai dati Inmarsat e modelli di deriva elaborati dal CSIRO australiano, l’ente scientifico che negli anni ha simulato migrazioni di detriti coerenti con i ritrovamenti in Africa orientale e a Réunion. Il contratto, formalizzato con un accordo firmato il 25 marzo 2025, ribadisce il principio economico che elimina rischi per la spesa pubblica. Per scandagliare il fondale, Ocean Infinity impiegherà le piattaforme della flotta Armada e una generazione aggiornata di AUV (Autonomous Underwater Vehicles) della serie Kongsberg HUGIN, capaci di operare fino a 6.000 metri di profondità e dotati di sensoristica avanzata: side-scan sonar, multibeam, synthetic aperture sonar e sub-bottom profiler. Strumenti che permettono di individuare anche piccoli oggetti in rilievi complessi, come dorsali e canyon sottomarini, un limite che nel 2018 costrinse gli operatori a rallentare più volte. L’Australian Transport Safety Bureau (ATSB) ha già confermato di essere disponibile ad analizzare le immagini e i dati raccolti, come avvenuto nella fase 2014–2017 della più vasta ricerca subacquea mai condotta, con oltre 120.000 chilometri quadrati mappati.

Undici anni dopo, la cronologia di ciò che sappiamo resta sorprendentemente solida e allo stesso tempo fragile. Il volo MH370 decolla da Kuala Lumpur alle 00:41 dell’8 marzo 2014, diretto a Pechino. Alle 01:19 avviene l’ultimo contatto vocale con il controllo aereo, e due minuti dopo il transponder scompare dal radar civile. I tracciamenti militari mostrano il velivolo compiere una virata verso ovest sopra la penisola malese, con l’ultima eco radar rilevata tra le 02:14 e le 02:22 sul Mar delle Andamane. La differenza di otto minuti, riportata nelle varie fonti, non modifica il quadro: l’aereo ha attraversato la penisola in direzione opposta alla rotta prevista. I sette “handshake” satellitari registrati da Inmarsat fino alle 08:11, generati automaticamente dal sistema ACARS, definiscono la traiettoria lungo il cosiddetto “settimo arco”, una fascia geometrica che indica dove l’aereo si trovava al momento dell’ultimo segnale, prima di finire in mare dopo l’esaurimento del carburante. I detriti ritrovati negli anni successivi – dal flaperon scoperto a Réunion il 29 luglio 2015, ai pezzi recuperati in Tanzania, Mozambico, Sudafrica e sull’isola di Rodrigues – confermano la coerenza dei modelli oceanografici: il 777 è precipitato nel settore meridionale dell’Oceano Indiano, molto più a sud di quanto ipotizzato all’inizio.

La ragione per cui si riparte ora è un intreccio di fattori tecnici, probabilistici e umani. Le grandi campagne del 2014–2017 e del 2018 fallirono non per mancanza di impegno, ma per una combinazione di condizioni proibitive: un’area troppo vasta, un fondale ostile e strumenti che, pur avanzati, non garantivano copertura perfetta. Oggi i dati satellitari sono stati rielaborati con algoritmi più raffinati; i modelli di deriva del CSIRO sono stati aggiornati alla luce di nuove simulazioni; la sensoristica degli AUV permette acquisizioni più nitide, più profonde e con minor tasso di falsi positivi. Inoltre, la stagione di ricerca è stata pianificata in finestre operative, evitando i lunghi stop imposti dai cicloni e dalle burrasche australi. Per i familiari riuniti nel gruppo Voice370, la ripartenza non è solo un tema tecnico ma una questione di principio: senza i registratori di volo e senza il relitto principale, la relazione malese pubblicata nel 2018 ha potuto escludere alcune ipotesi – come un guasto catastrofico senza intervento umano – ma non ha potuto stabilire alcuna verità definitiva. Restano aperte piste incompatibili tra loro, dall’interferenza esterna all’azione deliberata, passando per scenari accidentali mai confermati. Ritrovare l’aereo significherebbe chiudere un vuoto investigativo e umano che dura da undici anni.

La nuova area di ricerca, pur non pubblicata nei dettagli, è descritta nei documenti ufficiali come una “zona ristretta ad alta probabilità” lungo un segmento specifico del settimo arco. La selezione tiene conto di tre elementi centrali: la geometria dei parametri BTO (Burst Timing Offset) e BFO (Burst Frequency Offset) estratti dai log Inmarsat; la coerenza con i modelli di deriva aggiornati dal CSIRO, che spiegano l’arrivo dei pezzi sulle coste africane; la verifica incrociata con le aree già esplorate a elevata confidenza nelle missioni precedenti. Gli AUV verranno lanciati in sequenza parallela, navigando in “branch” che costruiranno un mosaico sonar ad altissima risoluzione. Ogni anomalia – qualunque forma artificiale, qualunque eco non compatibile con la morfologia naturale – verrà riesaminata con passaggi multipli, cambiando quota e inclinazione dei sensori. Solo dopo una conferma significativa si procederà con verifiche visive tramite telecamere a profondità estreme o ROV teleguidati.

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Sul piano economico, la Malesia ha scelto di ridurre i rischi: se non si trova nulla, il Paese non paga. Se si trova un relitto significativo, il compenso può raggiungere i 70 milioni di dollari. La durata indicata, 55 giorni non consecutivi, serve a massimizzare l’efficienza operativa nelle rare finestre di mare calmo. In caso di indizi solidi, è già prevista una seconda fase con espansione dell’area, verifiche intensive e una possibile operazione di recupero dei registratori di volo, indispensabili per un’analisi causale definitiva.

Il mistero tecnico che avvolge il volo MH370 è fatto di radar che si interrompono, satelliti che parlano attraverso silenzi e detriti che diventano messaggeri muti. I ritrovamenti verificati – dal flaperon di Réunion al flap dell’ala destra identificato in Tanzania, fino ai pannelli recuperati in Mozambico e Sudafrica – sono oggi pilastri dell’indagine. Le simulazioni del CSIRO, basate su test reali con flaperon in vasca e in mare, hanno dimostrato che i detriti provenienti da un impatto a sud-ovest dell’Australia avrebbero impiegato mesi per raggiungere l’Africa orientale. È esattamente ciò che è accaduto. La spedizione di Ocean Infinity del 2018 impressionò per velocità e meticolosità, con oltre 112.000 chilometri quadrati mappati in poche settimane effettive. Ma la combinazione di fondali irregolari, meteo ostile e margini di incertezza sulla traiettoria finale rese impossibile individuare il relitto. Oggi quelle lacune sono state colmate da un approccio molto più mirato e da tecnologie più mature.

Sul fronte della sicurezza aerea, il caso MH370 ha funzionato da detonatore lento ma costante. L’assenza di risposte ha accelerato l’adozione di sistemi di tracciamento satellitare continuo, servizi ACARS più ridondanti, sperimentazioni di “black box in the cloud” capaci di trasmettere dati critici in tempo reale. Il ritrovamento dell’aereo – o anche solo dei registratori – stabilirebbe la base causale per ampliare riforme già avviate ma ancora incomplete. Senza relitto, tutto resta sospeso tra statistica e ipotesi.

Le famiglie, intanto, non si sono mai fermate. Gruppi come Voice370 hanno setacciato spiagge lontane, raccolto fondi, sollecitato governi e agenzie internazionali, chiesto trasparenza sui dati tecnici, sulle procedure e sulle conclusioni ufficiali. L’annuncio malese è stato letto come un impegno a rimettere ordine dopo anni di frustrazione e di attese mancate. Gli attori coinvolti – Ministero dei Trasporti della Malesia, ATSB, Inmarsat, Ocean Infinity – si muovono oggi in un quadro che non è solo investigativo, ma anche morale: dare una risposta a un buco nero dell’aviazione civile nell’epoca dei satelliti, degli algoritmi e dei robot sottomarini.

Nessuno promette miracoli. Anche una mappa ottimizzata può sbagliare se l’impatto ha disperso il relitto in modo irregolare o se i rottami sono finiti in zone invisibili ai sonar. I tempi potrebbero allungarsi oltre i 55 giorni annunciati, anche se ogni acquisizione aumenterà comunque la conoscenza del fondale e restringerà l’incertezza residua. Se non verrà trovato nulla, la ricerca avrà comunque prodotto un risultato: escludere un’altra parte dell’oceano e indirizzare gli sforzi futuri dove le probabilità sono più solide.

Resta un ultimo elemento, forse il più determinante. Da undici anni, il caso MH370 ha trasformato il dolore di 239 famiglie in una domanda collettiva di verità. Il ritorno in mare non è un gesto simbolico. È la scelta, tecnica e politica, di non accettare che un aereo possa scomparire nell’era del monitoraggio satellitare lasciando dietro di sé solo il silenzio. Le ricerche ripartono da qui: da un rettangolo di oceano remoto, dove il mondo sembra spegnersi e il fondale racconta più di quanto l’occhio umano possa vedere. È da quei segnali sommersi che, forse, arriverà la fine di un enigma lungo undici anni.


Fonti utilizzate:
ATSB, Ocean Infinity, Inmarsat, CSIRO, Malaysia Airlines, Ministero dei Trasporti della Malesia, Voice370.

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