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Il giorno in cui il Santo Bambino si è spento. E quello in cui Ivrea ha deciso di riaccenderlo, questa volta mettendoci i soldi

Dalla resa silenziosa alla firma del protocollo che promette cinquanta posti letto, nuovi dormitori e un sistema stabile contro l’emergenza abitativa

Il giorno in cui il Santo Bambino si è spento. E quello in cui Ivrea ha deciso di riaccenderlo

Il giorno in cui il Santo Bambino si è spento. E quello in cui Ivrea ha deciso di riaccenderlo

A maggio, a Ivrea, è successo un fatto grave che in pochi hanno voluto guardare come avrebbe meritato. Una cosa piccola, silenziosa, senza sirene né bandiere al vento. Una cosa che succede solo agli ultimi e che, proprio per questo, quasi mai diventano un problema da risolvere subito. È accaduto che un luogo dal nome mite, Santo Bambino — nato nel 2014 dalla visione di accoglienza di don Arnaldo Bigio e don Silvio Faga, pensato come una residenza autogestita per chi non aveva più nulla — si è lentamente svuotato. Giorno dopo giorno. E quando è arrivata l’ultima mattina, dentro erano rimasti soltanto in due. Due soli, in un edificio che nei mesi precedenti aveva ospitato una trentina di persone, forse di più, secondo chi lì dentro aveva vissuto davvero.

L'ultimo giorno la porta si è aperta, ma non per accogliere, per far uscire. Chinati sui sacchi, tra vestiti e oggetti raccolti in fretta, come si fa quando si deve andare via senza disturbare nessuno, ma non si ha più l’età né la forza per ricominciare ogni volta da zero hanno detto addio ad un riparo e che negli ultimi tempi era diventato sempre più instabile: la caldaia rotta, l’acqua gelida, la doccia fatta stringendo i denti perché anche una lamentela avrebbe potuto peggiorare la situazione.

Uno dei due aveva provato a raccontarsi. Non una lunga storia, solo poche frasi, dette con la voce di chi aveva perso ogni speranza: «Lavoravo in Spagna… poi l’azienda ha chiuso… sono tornato… il Covid… a 62 anni chi ti prende?». Nessuna rabbia. Solo stanchezza, quella stanchezza di chi non chiede più ciò che sa non arriverà. L’altro, da tempo, aveva smesso persino di parlare: un silenzio pesante, il tipo di silenzio che è anche un po' corazza.

Avevano chiesto qualche giorno in più. Non un mese, non un miracolo: solo un paio di giorni per arrivare all’11 maggio, quando — forse — avrebbero potuto entrare finalmente in una casa trovata con fatica. La risposta era stata un «no» secco, senza appigli, senza umanità, senza lacrime: «Se non ve ne andate, chiamiamo la Questura». Impossibile immaginare l'effetto di una frase così a due che in quel momento non avevano più nulla da perdere.

Prendono il telefono e chiamano il consigliere comunale Massimiliano De Stefano, l’unico che in quei giorni li aveva guardati come persone, non come problemi. De Stefano arriva, li ascolta, li convince ad accettare una sistemazione temporanea a Borgofranco: una soluzione provvisoria, una di quelle che non risolvono ma almeno evitano il gelo della notte.

Intorno, il silenzio. Un silenzio iniziato il 14 febbraio, quando, con una lettera don Arnaldo Bigio, in qualità di presidente dell’Associazione L’Orizzonte, annuncia che la struttura doveva essere «totalmente libera entro il 25 aprile» per «improrogabili lavori di ristrutturazione e riorganizzazione dell’accoglienza». Una lettera che avrebbe dovuto accendere un dibattito pubblico, aprire un confronto, avviare una pianificazione. E invece niente. Per settimane, nessuno ne parla. Nessuna spiegazione. Nessun piano alternativo.

Quando la notizia diventa di dominio pubblico, la città si spacca tra accuse e difese. Comunicati contro comunicati, responsabilità rimpallate, interpretazioni incompatibili della stessa vicenda.

asfa

Pietro Osenga

i due parroci

Il Santo Bambino era nato da un’idea bella, fragile, umana. Don Arnaldo Bigio e don Silvio Faga lo avevano immaginato come una casa condivisa, un luogo dove nessuno sarebbe rimasto solo. E' durato, ha funzionato, ha accolto. Per anni si è retto sul volontariato, sulla solidarietà, su contributi incerti, e sulla forza stessa degli ospiti. Ma col tempo nessuno ha più avuto né i mezzi finanziari né la possibilità di proteggerlo come avrebbe meritato.

La verità amara era un'altra. La Diocesi non aveva più le forze economiche per reggere quel peso. Il Comune doveva mettere mano al portafoglio e lo ha fatto. Morale? Oggi è un altro giorno. E in Municipio a Ivrea si è tenuta la conferenza stampa che ha segnato la firma ufficiale del nuovo protocollo d’intesa tra Comune di Ivrea, Consorzio In.Re.Te., Caritas Diocesana, Fondazione Istituzione Canonico Cuniberti e Associazione Mastropietro: un accordo che promette di far rivivere il Santo Bambino e di mettere finalmente ordine, risorse e metodo in un settore che negli ultimi mesi è esploso in tutta la sua fragilità.

Un’intesa che, nelle parole del sindaco Matteo Chiantore, rappresenta soprattutto una svolta culturale.

«Con il Vescovo - ha sottolineato - ci siamo trovati fin da subito per una collaborazione fattiva. Non facciamo qualcosa di diverso da prima, ma lo faremo in modo organizzato, con gli attori finalmente messi in rete. Il Santo Bambino era gestito anche prima, ma non in maniera strutturata. D’ora in poi gestiremo anche le urgenze. Situazioni tipo: abbiamo tre persone in ciabatte, che facciamo?».

Le parole del sindaco aprono al tema centrale: l’abitare come nuova frontiera della povertà. «Oggi questo problema supera quello del lavoro. Abbiamo un caso di un italiano che, pur lavorando ed essendo autonomo, non trova casa per il cognome e il colore della sua pelle».

Accanto a lui, la vicesindaca Patrizia Dal Santo ha ricordato come il tavolo è nato su impulso del Vescovo Daniele Salera: «Se il problema è complesso, complessa deve essere la risposta. Abbiamo un’emergenza reale e per gestirla serve una comunità che lavora insieme. L’obiettivo è accompagnare chi vive un’emergenza verso l’autonomia abitativa».

Poi il ringraziamento a don Arnaldo Bigio e don Silvio Faga, e il punto di svolta: il nuovo progetto non riguarderà più soltanto gli uomini, ma includerà anche un dormitorio femminile, guardando tanto agli italiani quanto agli stranieri rimasti fuori dai percorsi di protezione.

A delineare la parte concreta del progetto è stato Piero Osenga, referente della Pastorale Sociale della Diocesi: «I lavori saranno finiti entro il 2026: due dormitori più alcune unità abitative. Collaboreremo con Mastropietro per la vigilanza, con i volontari Caritas per il pranzo, con Agape per le borse alimentari — oggi ne distribuiamo circa cinquanta al giorno. L’accordo vale dieci anni, con verifica annuale».

Parole confermate dalla rappresentante del Consorzio In.Re.Te., Maria Grazia Binda, che ha parlato di «un tavolo strutturato da riunire periodicamente e di un rafforzamento della collaborazione già esistente, resa oggi più urgente dall’aumento delle povertà e delle marginalità».

Il Vescovo Daniele Salera ha ampliato lo sguardo alle povertà assoluta che in Italia riguardano 5,7 milioni di persone, di cui 1,3 milioni bambini e ragazzi.

Insomma, il protocollo — sottoscritto da Patrizia Maria Gianna Merlo (dirttrice del Consorzio In.Rete), Fiorenzo Bianco, don Silvio Faga (Fondazione Istituzione Canonico Cuniberti) ed Egidio Costanza (Associazione Mastropietro)— nasce dalla consapevolezza che l’emergenza abitativa non può più essere gestita con improvvisazione. L’aumento dei nuovi poveri, certificato dal rapporto Caritas 2024, e la chiusura improvvisa del Santo Bambino hanno mostrato quanto il sistema fosse fragile.

Ricapitolando: la Fondazione Cuniberti mette a disposizione l’immobile di via Arborio e si impegna a completare i lavori entro il 2026: il Comune investirà 145 mila euro, con fondi erogati in tre tranche, e si occuperà del monitoraggio e della verifica dei posti.

Lo stabile ospiterà otto posti per uomini soli, due unità abitative da quattro posti per donne e mamme con bambini. Si aggiungono altre sistemazioni in alloggi già oggi nella disponibilità della Diocesi per accoglienze temporanee. In totale non meno di cinquanta posti letto. 

La Caritas garantirà la rete degli altri alloggi attivi in città e la distribuzione dei pasti e delle borse alimentari. Il Consorzio In.Re.Te. valuterà gli inserimenti e seguirà i percorsi individuali. L’Associazione Mastropietro si occuperà della gestione quotidiana: aperture, chiusure, vigilanza, rapporti con gli ospiti, accompagnamento educativo, pronto intervento sociale.

Nel protocollo anche l'obbligo che vale per tutti, ma soprattutto per il Comune e per In.rete, di trovare tutti gli anni 30 mila euro per i costi di gestione dell'insieme, costi che la Diocesi non è più in grado di sostenere da sola.

Il protocollo durerà dieci anni, con una revisione annuale. Una durata che dice molto: l’intenzione di costruire una risposta stabile, capace di adattarsi e di non lasciare più nessuno ai margini.

È l’inizio di una stagione diversa. Forse, finalmente, Ivrea sta iniziando a capire che l’accoglienza non è un favore, né un gesto occasionale: è un servizio essenziale, come la scuola o la sanità. Perché la povertà non scompare ignorandola: cambia forma, cresce, si indurisce.

"Questo protocollo vuole essere l’occasione per trasformare una crisi — quella del Santo Bambino — in un progetto solido, duraturo, umano..." ha commentato Dal Santo.
E per ricordare che una comunità si misura anche da come custodisce chi non ha difese. Da come tende la mano a chi cammina con la vita chiusa in un sacchetto di plastica.

La dichiarazione

"Ricordo ancora il comunicato stampa al vetriolo di Laboratorio Civico - commenta il consigliere comunale Massimiliano De Stefano - che in sostanza mi accusava di aver denunciato la pessima gestione dell’emergenza abitativa che coinvolgeva 33 persone senza casa costrette a lasciare il Santo Bambino. Scrivevano, più o meno, così: "Laboratorio Civico respinge le  manipolazioni e speculazioni” che, secondo loro, sarebbero state fatte da De Stefano e da alcuni media sulla vicenda della chiusura del Santo Bambino. Oggi posso dirlo con orgoglio: quella denuncia pubblica era necessaria. E anche se la politica e l’amministrazione fanno fatica a riconoscerlo, il merito di questo nuovo progetto di accoglienza è in parte anche mio. Perché non sono abituato a girarmi dall’altra parte. Ho scelto di rendere pubbliche le incongruenze, di dare voce a chi non ne ha, e di pretendere che le persone più fragili non venissero lasciate per strada. Se oggi il tema è finalmente affrontato con serietà, è anche grazie a chi, come me, ha avuto il coraggio di esporsi quando farlo non era comodo...".

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