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03 Dicembre 2025 - 15:21
Oro ai massimi storici: cosa rischia davvero l’Italia
Una mattina d’autunno del 2025 i terminali dei mercati lampeggiano in un rosso che non avverte, e in un oro che seduce. Il metallo prezioso sfonda i 4.000 dollari l’oncia, poi spinge oltre i 4.300 in poche ore, un picco che manda in fibrillazione analisti e uffici studi. Dentro il Parlamento, quasi in simultanea, rimbalza un emendamento che vorrebbe “riconsegnare” alla collettività la paternità del patrimonio aureo nazionale. Fuori, nelle sale operative, la memoria corre a un vecchio avviso che circola sottovoce da trent’anni: vendere oro nel momento sbagliato è un errore che lascia cicatrici profonde. La Gran Bretagna dei tempi di Gordon Brown, la Svizzera dei primi Duemila, parlano ancora attraverso i grafici: chi cedette allora si porta addosso, oggi, un costo d’opportunità incalcolabile. Il paradosso è che, negli ultimi anni, quasi tutte le banche centrali hanno fatto il contrario: hanno comprato, non venduto. E chi si è liberato di una parte delle riserve lo ha fatto in modo tattico, spesso registrando perdite contabili o, peggio, rinunciando a un valore che il mercato sta rivelando solo adesso.
In questo scenario l’Italia non è una comparsa. La Banca d’Italia custodisce 2.452 tonnellate di oro, il terzo stock nazionale al mondo: un capitale reale e simbolico che, ai valori di fine 2024, sfiorava i 197,9 miliardi di euro. Oggi, con le nuove quotazioni, il peso economico sarebbe ben superiore. La domanda però non cambia: come gestire questo patrimonio senza sfiorare l’indipendenza della banca centrale, che nei trattati europei non è un optional ma un cardine?
La risposta passa da una storia che si ripete. L’oro è tornato centrale nelle strategie delle banche centrali: riallocazioni, tensioni geopolitiche, crepe nella finanza globale. Nel terzo trimestre 2025, ricorda il World Gold Council, gli acquisti netti sfiorano le 220 tonnellate. Una cifra inferiore ai picchi degli anni post-2022, ma ancora molto lontana dal passato in cui le banche centrali erano venditrici nette. Oggi non è così: le istituzioni accumulano, e chi effettua micro-vendite – dall’Uzbekistan al Qatar, da Singapore ad altri Paesi emergenti – lo fa seguendo logiche tecniche. La narrazione del “tutti vendono e sbagliano” non regge: l’oro è tornato a essere un pilastro, non un residuo.

Gli errori veri appartengono al passato. Londra lo sa benissimo: tra 1999 e 2002, sotto la guida di Gordon Brown, il Tesoro britannico cedette 395 tonnellate a prezzi che oggi suonano irreali, intorno ai 275 dollari l’oncia. È rimasto nella storia come il Brown’s Bottom. La Svizzera, negli stessi anni, vendette parte delle riserve a seguito di una revisione costituzionale che definiva “eccedenti” alcuni stock. Se oggi quei lingotti fossero ancora nei caveau di Berna, varrebbero multipli delle cifre incassate allora. Le cronache si rileggono da sole. E insegnano che l’oro non genera flussi, non produce cedole, non ripaga la fretta: serve a proteggere il bilancio nei cicli avversi. Il vero nodo, però, non è vendere o non vendere: è capire con quali regole si governa un asset che reagisce più al tempo che al mercato.
L’Eurosistema applica un principio contabile poco noto ma decisivo. L’oro è valutato ai prezzi di mercato, ma le plusvalenze non finiscono subito nel conto economico: vengono accumulate nei conti di rivalutazione. Sono un cuscinetto, un airbag contro gli shock, e impediscono che utili meramente “nominali” diventino dividendi spendibili. Al contrario, le minusvalenze entrano in bilancio solo quando superano quei cuscinetti. Se una banca centrale vende, incassa utili realizzati ma si priva di quel paracadute. È un paradosso tecnico che molti politici ignorano: l’oro, finché rimane nei caveau, rafforza il patrimonio senza creare pressioni distributive. Appena lo si vende, diventa più esposto a tasse, rischi di mercato e giudizi esterni.
Da qui nasce il riferimento costante al modello tedesco. La Bundesbank non è un altarino identitario: è un metodo. Regole chiare, trasparenza radicale – dall’elenco dei lingotti alle ispezioni –, logistica calibrata tra Francoforte, New York e Londra, conti di rivalutazione robusti per oltre 267 miliardi nel 2024. Non un mito culturale, ma un pacchetto di disciplina che rende costoso, per chi governa, qualunque tentazione di interferenza.
L’Italia, per parte sua, dispone di un patrimonio enorme e diversificato: circa il 44,9% dell’oro è custodito in Italia, il 43,3% negli Stati Uniti, il 6,1% in Svizzera, il 5,8% nel Regno Unito. È una distribuzione voluta, pensata per garantire sicurezza interna e operatività internazionale. Il dibattito politico ritorna ciclicamente, con la domanda più insidiosa di tutte: a chi appartiene l’oro? La risposta giuridica è cristallina: la Banca d’Italia è indipendente, e qualsiasi norma che permetta allo Stato di orientare direttamente le riserve rischia uno scontro frontale con l’ECB e con i mercati. La vera questione è altrove: non nel titolo di proprietà, ma nella governance che impedisce scorciatoie pericolose.
Gestire bene significa prima di tutto respingere l’idea dell’oro come bancomat. Significa proteggere la geografia “a tre gambe” – Roma, New York, Londra – e costruire trasparenza: mappe aggiornate della dislocazione, criteri di qualità LBMA, calendari delle ispezioni, capitoli di bilancio che spieghino apertamente la funzione dei conti di rivalutazione. Significa dotarsi di una policy pubblica che limiti le vendite straordinarie, consenta solo micro-ottimizzazioni tecniche e vincoli ogni operazione al mandato dell’Eurosistema. E significa anche, in un Paese dove i miti economici proliferano, educare: l’oro protegge, ma non garantisce; dà stabilità, ma non è infallibile.
Poi c’è la tentazione delle plusvalenze. Con i prezzi attuali, trasformare rivalutazioni in utili realizzati appare irresistibile. Ma il costo è evidente: tasse immediate, perdita di cuscinetti patrimoniali, maggiore vulnerabilità nei cicli negativi. Il modello tedesco dimostra che quei cuscinetti servono quando i portafogli soffrono: senza, il conto arriva presto.
Sul fondo resta il nodo politico. Ogni manovra che suggerisca un accesso diretto dell’Esecutivo all’oro di Via Nazionale segnala rischio ai mercati. L’ECB lo ha ricordato più volte: l’indipendenza non è una formalità, è un requisito di stabilità.
E se servisse davvero usare l’oro? Esistono strade meno traumatiche: collateralizzazioni temporanee, gold swaps controllati, operazioni di liquidità che non intaccano la proprietà del metallo. Ma richiedono governance, limiti quantitativi, disclosure. Nulla che possa essere improvvisato.
L’agenda italiana potrebbe cominciare da tre passaggi semplici: un comitato parlamentare di vigilanza informata che audisca annualmente la Banca d’Italia, un box permanente nel Documento di economia e finanza sulle riserve, una strategia di comunicazione stabile e accessibile su logistica, audit, geografia e contabilità dell’oro. Non per ritualità, ma per costruire fiducia.
Alla fine, il valore dell’oro non è solo nel metallo. È nelle regole che lo circondano, nelle istituzioni che lo custodiscono, nella disciplina che impedisce agli umori del giorno di diventare decisioni irreversibili. Se l’Italia sceglierà il metodo – la prudenza contabile, la trasparenza, la logistica efficiente – allora il suo oro varrà anche quando le quotazioni si raffredderanno. E resterà chiaro a tutti che i lingotti più pesanti sono quelli che non si vedono: quelli fatti di norme, vigilanza e indipendenza.
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