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Esteri
03 Dicembre 2025 - 06:30
Putin
L’odore di caffè che si diffonde nell’atrio del centro conferenze di Mosca si mescola al tintinnio dei badge: investitori, consulenti, giornalisti che si muovono tra i pannelli blu del forum “Russia Calling!” organizzato dalla banca statale VTB. È un’atmosfera di rito, fatta di strette di mano e passi attutiti dalla moquette, quando all’improvviso arriva la frase che taglia la sala come una lama: Vladimir Putin scandisce che la Russia “non intende fare la guerra all’Europa”, ma avverte che “se l’Europa decidesse di farla e la iniziasse davvero, saremmo pronti subito”. Poi aggiunge il monito più cupo, quello che fa calare il silenzio tra i presenti: in quel caso “potrebbe crearsi rapidamente una situazione in cui non avremmo più nessuno con cui negoziare”. È il 2 dicembre 2025. Una giornata in cui dal Cremlino arrivano contemporaneamente segnali di apertura verso un possibile piano di pace a guida americana e accuse dirette agli europei di “ostacolare” ogni tentativo di dialogo.
Il messaggio è doppio e calibrato: negare un intento aggressivo e, allo stesso tempo, far sapere che la Russia è pronta “subito” a rispondere se sarà “l’Europa a iniziare”. È il linguaggio tipico della deterrenza, quello che non ha bisogno di spiegazioni perché parla da sé: mostrare forze e intenzioni per condizionare le scelte altrui. Le agenzie internazionali confermano che, nelle stesse ore, dal Cremlino arriva un’ulteriore chiosa: “se l’Europa vuole la guerra, la Russia è pronta e la vincerà”. In questo schema, l’ammonimento “non resterebbe nessuno con cui negoziare” assume il ruolo di messaggio a lungo raggio, destinato tanto alle capitali dell’Unione europea quanto ai governi della NATO(Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), impegnati da quasi quattro anni nel sostegno a Kyiv.

Steve Witkoff
A incastrarsi perfettamente nel quadro c’è la diplomazia parallela con gli Stati Uniti. A Mosca, nelle stesse ore, arrivano l’inviato speciale americano Steve Witkoff e il consigliere Jared Kushner per colloqui riservati su un piano di cessate il fuoco che comprenda anche garanzie di sicurezza. Il Cremlino sostiene che l’Europa avrebbe “deformato” il progetto originario introducendo condizioni “assolutamente inaccettabili” per la Russia. E così, mentre i due emissari americani restano gli unici interlocutori realmente attivi, Mosca scarica sulle capitali europee la responsabilità del blocco e, implicitamente, accredita Washington come il solo attore con cui valga la pena trattare. Una regia fin troppo trasparente.
Quattro giorni prima, da Bishkek, dopo il vertice della CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), lo stesso Putin aveva dichiarato di essere pronto a “mettere per iscritto” che la Russia non intende attaccare alcun Paese europeo. Una formula pensata per rispondere agli allarmi circolanti da mesi su una possibile aggressione russa entro il 2029. La rapidità con cui la retorica è passata dal “possiamo firmare una garanzia” al “siamo pronti ora se l’Europa vuole la guerra” racconta bene l’altalena comunicativa usata dal Cremlino: rassicurazioni e minacce come strumenti interscambiabili di pressione politica.
Nel frattempo il canale americano resta l’unico tessuto diplomatico vivo. Kyiv ripete che non cederà territori e che qualunque accordo dovrà garantire sovranità e sicurezza; Mosca sostiene che gli europei avrebbero spinto modifiche inaccettabili al piano e che per questo si sarebbe impantanato. La mossa russa è chiara: parlare “sopra la testa” dell’Unione europea, alimentando la percezione che Bruxelles sia un attore irrilevante e che l’interlocutore reale non possa che essere Washington.
Le cancellerie europee, dal canto loro, osservano con crescente frustrazione. Temono un accordo “brutto”, deciso da altri, che scaricherebbe sull’Europa i costi della sicurezza senza garantire stabilità reale. E temono anche che il messaggio russo — “trattiamo con gli Stati Uniti, non con voi” — finisca per radicarsi nell’opinione pubblica, già provata da inflazione, bilanci della difesa e scadenze elettorali. Tutto questo mentre la guerra in Ucraina entra nel suo quarto inverno e il Cremlino rivendica successi militari, minaccia ritorsioni nel Mar Nero e accusa gli ucraini di attacchi contro petroliere russe. Il riferimento alla possibilità di “tagliare l’accesso al mare” all’Ucraina è, nel contesto, un’avvisaglia puntuale: colpire nodi infrastrutturali significa restringere gli spazi di mediazione e alimentare l’idea che possa “non esserci più nessuno con cui negoziare”.
La formula “se l’Europa inizia la guerra” è costruita per essere ambigua. Nel linguaggio di Mosca, infatti, qualunque potenziamento del sostegno occidentale — dall’invio di armi avanzate alle autorizzazioni a colpire obiettivi militari in territorio russo — viene presentato come una “partecipazione diretta”. L’avverbio “subito” sottolinea la natura psicolinguistica del messaggio: far arrivare ai cittadini europei la sensazione che un passo ulteriore verso Kyiv possa aprire, in poche ore, la porta a un’escalation incontrollabile.
In Europa, intanto, analisi riservate dei servizi e degli apparati della Difesa sottolineano da mesi che la Russia potrebbe “crearsi l’opzione” per un attacco contro la NATO entro la fine del decennio. In Germania, esponenti governativi parlano apertamente di una finestra 2027-2029, spiegando che il punto non è “la Russia attaccherà”, ma “la Russia potrebbe essere in grado di farlo”. Ed è anche questo che spiegava, nei giorni scorsi, l’urgenza con cui le capitali Ue seguono ogni parola pronunciata da Putin, comprese quelle che giocano sul paradosso di offrire “garanzie scritte” mentre si evoca la possibilità di una guerra iniziata “dagli europei”.
Un altro nodo riguarda la legittimità dell’interlocutore ucraino. Putin ripete da tempo che con la leadership di Kyivsarebbe “giuridicamente impossibile” firmare intese. Una posizione che serve a spostare il baricentro del negoziato verso Washington e, allo stesso tempo, a delegittimare l’Ucraina come soggetto autonomo di trattativa. Secondo un riepilogo pubblicato da Al Jazeera, Mosca si dice anche disponibile a “documentare” la non aggressione ai Paesi Ue, ma condiziona l’impegno al riconoscimento delle “realtà sul terreno” e al ritiro ucraino dal Donbas. Kyiv ribadisce il suo no assoluto a qualsiasi cessione territoriale. È lì che il negoziato si è sempre spezzato.
Gli Stati Uniti cercano una difficile mediazione: un cessate il fuoco con “garanzie reali”, senza incrinare la coesione della NATO. Le bozze discusse hanno toccato quesiti sensibili: limiti agli armamenti, status dei territori occupati, prospettive dell’adesione ucraina alla NATO, architettura di sicurezza a lungo termine. Secondo vari resoconti giornalistici, le prime versioni erano considerate troppo favorevoli alla Russia, poi riformulate in parte su richiesta ucraina. Ma le linee rosse restano nette e difficili da conciliare.
Per l’Europa la posta in gioco è enorme. Le frasi di Putin non sono soltanto minacce: sono strumenti per influenzare la discussione pubblica in Paesi dove il sostegno a Kyiv non è più un consenso automatico. La narrativa “l’Unione europea è sul fronte della guerra, non della pace” ha un target preciso: erodere l’unità, rendere più difficili nuovi invii di armi, dissuadere investimenti a lungo termine nella sicurezza comune. L’uso simultaneo di toni opposti — “siamo pronti alla guerra se voi la volete” e “possiamo firmare la non aggressione” — mira proprio a polarizzare il dibattito.
Il Mar Nero resta uno dei punti più sensibili. La minaccia di ritorsioni navali, le notizie diffuse dai media indipendenti su un presunto attacco con droni a una petroliera russa diretta in Turchia, la vulnerabilità delle rotte commerciali e dei mercati energetici sono tasselli di un quadro instabile, dove basta un incidente per innescare reazioni a catena. In questo ambiente, la frase “non avremmo nessuno con cui negoziare” assume il sapore di un avvertimento sistemico, un modo per suggerire che la guerra totale non è un concetto astratto.
Per Kyiv, le parole pronunciate a Mosca non sono una novità, ma restano un segnale pericoloso. La priorità ucraina è evitare perdite territoriali permanenti e assicurarsi garanzie credibili contro future offensive. Sul terreno, il Cremlino rivendica avanzamenti militari, come la presunta presa di Pokrovsk, contestata da Kyiv, e queste rivendicazioni diventano parte della battaglia informativa che incide direttamente sul perimetro di un eventuale negoziato.
Alla fine, il quadro che emerge dal forum di Mosca è quello di una strategia a due voci. Da una parte, la disponibilità ad accordi “scritti” di non aggressione, presentati come prova di buona volontà. Dall’altra, la minaccia di un’immediata risposta militare se l’Europa “dovesse provocare” un’escalation. È una retorica che non parla soltanto ai governi, ma anche alle opinioni pubbliche occidentali, con l’obiettivo di massimizzare i margini negoziali con gli Stati Uniti e tenere l’Unione europea sulla difensiva. Per capire questo momento non basta chiedersi cosa significhi la parola “subito”: la vera chiave è distinguere tra postura e sostanza. La postura colpisce l’immaginario; la sostanza si misura sui fatti, sulle posizioni negoziali, sugli equilibri militari. In queste settimane, le due dimensioni continuano a rincorrersi.
Fonti utilizzate:
Associated Press, Reuters, Al Jazeera, Agenzie internazionali varie, Dichiarazioni ufficiali del Cremlino, Resoconti stampa statunitense ed europea.
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