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03 Dicembre 2025 - 15:51
La scena è quella di una fila di container nel porto di Long Beach, al calare della sera. Le gru si muovono come metronomi metallici, mentre luci fredde si riflettono sulla baia della California. Ogni cassa che viene spostata racconta un frammento delle catene del valore globali; alcune, però, sussurrano un’altra storia, meno visibile ma molto più rivelatrice. Perché dietro i terminal aeroportuali, i centri dati, i gasdotti o le acquisizioni nel cuore tecnologico degli Stati Uniti e dell’Unione europea scorre, silenziosa, una rete di finanziamenti provenienti da banche statali della Cina. Non è la trama di un thriller geopolitico, ma la fotografia molto concreta che emerge dal nuovo dossier di AidData, dal titolo “Chasing China: Learning to Play by Beijing’s Global Lending Rules”. Il rapporto, costruito su un dataset inedito di 30.000 sovvenzioni e prestiti tra il 2000 e il 2023, ridisegna i confini del credito cinese: non più soltanto ponti, ferrovie e dighe nel Sud del mondo, ma una massa crescente di denaro che oggi punta verso le economie più avanzate del pianeta.
Nel cuore del documento c’è una cifra che da sola cambia la dimensione del fenomeno: 2,2 trilioni di dollari. Tanto valgono, secondo AidData, i prestiti e le sovvenzioni riconducibili al “settore ufficiale” cinese – dai ministeri alle agenzie statali, passando per banche politiche come Exim Bank of China e China Development Bank, fino alle grandi SOE (State-Owned Enterprises, imprese pubbliche) e ai fondi sovrani – erogati dal 2000 al 2023. È un totale molto più alto delle stime finora circolate, ma soprattutto è un credito che oggi ha una geografia diversa: la tradizionale Belt and Road Initiative nei paesi in via di sviluppo è solo una porzione minoritaria, attorno al 20%, mentre la parte più consistente dei flussi si dirige ora verso paesi ad alto o medio-alto reddito. La quota per le economie ricche è infatti balzata dal 12% di inizio millennio al 76% nell’ultimo triennio della serie.
A colpire le redazioni di mezzo mondo è un dato in particolare: il singolo paese che riceve più credito è proprio gli Stati Uniti, che superano di poco i 200 miliardi di dollari, distribuiti in circa 2.500 progetti e attività. Seguono il Regno Unito con circa 60 miliardi, l’Unione europea con oltre 160 miliardi, poi economie ricche di risorse o potenze industriali intermedie. Il ridimensionamento del peso del Sud globale non cancella la sua importanza, ma corregge la narrativa che per dieci anni ha dominato il discorso sulla finanza cinese.
Nelle economie avanzate, i fondi della Cina non finanziano più soltanto infrastrutture materiali: entrano direttamente nei “nervi” dei sistemi economici. Il nuovo dataset documenta sostegni a impianti di GNL (Gas Naturale Liquefatto) in Texas e Louisiana, centri dati in Virginia del Nord, terminal aeroportuali al JFK di New York e al LAX di Los Angeles, oltre a progetti infrastrutturali come il Matterhorn Express e il Dakota Access Pipeline. Una parte importante dei fondi, inoltre, ha facilitato acquisizioni o linee di credito a imprese high-tech americane ed europee, dai semiconduttori alla biotecnologia, in perfetta continuità con le priorità industriali di Pechino. Nei paesi a basso reddito rimane forte la presenza cinese in grandi opere come dighe, porti e ferrovie, ma la loro incidenza percentuale è calata. Molti beneficiari del ciclo 2013-2020 sono oggi in condizioni di stress debitorio – come Zambia, Ghana ed Etiopia – e la Cina, pur non appartenendo al Club di Parigi, ha già partecipato a complesse operazioni di ristrutturazione del debito, con risultati alterni ma non irrilevanti.
Il vero paradosso geopolitico è altrove. Per anni Washington ha avvertito partner e alleati sui rischi della dipendenza dai prestiti cinesi; eppure, stando al dossier, è proprio l’America la maggiore destinataria della finanza “ufficiale” di Pechino. Le ragioni sono molte e spesso si nascondono nelle pieghe della finanza globale: strutture societarie offshore, veicoli ibridi, partecipazioni indirette, strumenti di trade finance, leasing e crediti di fornitura che difficilmente compaiono nelle statistiche come “prestiti cinesi”. Il risultato è un’impronta finanziaria più profonda e ramificata di quanto avessero intuito i regolatori americani ed europei.

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Le motivazioni della Cina emergono con chiarezza dal rapporto: consolidare posizioni nelle catene del valore più sensibili – minerali critici, batterie, componenti per l’IA (Intelligenza Artificiale), hardware per il cloud – e rafforzare i punti di strozzatura tecnologici e logistici che le garantiscono un vantaggio strategico. In parallelo, nel 2025 Pechino ha annunciato la rinuncia, per il futuro, al “trattamento speciale e differenziato” dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), un passo interpretato come tentativo di ridurre le tensioni con l’Occidente senza modificare in profondità la propria politica industriale.
Il dataset di AidData colpisce anche per la sua struttura metodologica: raccoglie in un unico archivio globale 33.580 progetti, suddivisi tra paesi ad alto reddito (9.764 progetti, 943,4 miliardi di dollari) e paesi a basso e medio reddito (23.816 progetti, oltre 1,2 trilioni). Il database comprende sovvenzioni, prestiti sovrani, prestiti a imprese pubbliche e private, garanzie, leasing e varie forme di credito commerciale riconducibili al settore pubblico cinese. Un’architettura così ampia spiega perché il totale arrivi a numeri “più alti del previsto”. Ma i limiti restano: molte operazioni sono coperte da clausole di riservatezza, tante passano attraverso società schermo e molte vengono registrate da banche dati internazionali come semplici finanziamenti commerciali di origine non identificata. È un mosaico incompleto, ma più nitido di qualunque fotografia finora disponibile.
Questa ricostruzione impone anche di rivedere la narrazione sulla Belt and Road Initiative, spesso raccontata come la dimostrazione del soft power infrastrutturale cinese nel Sud globale e come prova della presunta “debt-trap diplomacy”. Il nuovo quadro non smentisce l’enormità degli investimenti in Africa e Asia, ma mostra che quei progetti visibili erano solo la punta dell’iceberg. La parte sommersa, oggi, passa per economie ricche e per settori strategici dove la distinzione tra aiuto allo sviluppo, investimento industriale e penetrazione finanziaria sfuma.
Le implicazioni geopolitiche sono molteplici. Negli Stati Uniti, il tema entra nel dossier della sicurezza economica insieme agli strumenti già esistenti come CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States) e FIRRMA(Foreign Investment Risk Review Modernization Act). In Europa, l’intreccio riguarda infrastrutture critiche, materie prime strategiche e la tenuta di un mercato che resta permeabile a forme di finanza meno evidenti dei tradizionali accordi di fusione e acquisizione. Nel Sud globale, invece, la questione è se il graduale spostamento dei capitali verso i paesi ricchi rischi di lasciare scoperte esigenze infrastrutturali sempre più urgenti.
I casi americani più citati dopo il lancio del rapporto riguardano infrastrutture energetiche nel Golfo del Messico, partecipazioni finanziarie negli aeroporti ad alta intensità di capitale, crediti a data center e infrastrutture cloud. È in questi ambiti che la distinzione fra prestito e investimento, fra finanziamento privato e sostegno pubblico cinese, diventa più labile. E sono proprio queste zone grigie che suggeriscono ai regolatori la necessità di ampliare il perimetro degli strumenti di screening, includendo il credito di filiera, i contratti di off-take e tutte le forme di finanziamento indiretto che finora sono sfuggite ai radar.
La forza del lavoro di AidData sta nel modo in cui costringe analisti, giornalisti e opinione pubblica a cambiare prospettiva. Non basta più guardare alle grandi opere simboliche nei paesi emergenti: bisogna seguire i flussi finanziari, identificare la provenienza dei fondi, chiedere trasparenza nei contratti che plasmano infrastrutture e tecnologie strategiche. In questo scenario, la nuova partita si gioca sulle regole: quelle che Stati Uniti, Europa e istituzioni multilaterali dovranno elaborare per offrire alternative credibili e per impedire che la finanza invisibile finisca per orientare, in silenzio, il futuro delle infrastrutture e dei nodi tecnologici più sensibili del mondo.
Il rapporto ricorda che la sua stessa costruzione è soggetta a revisioni continue: i dati sono stati pubblicati il 18 novembre 2025 e potrebbero cambiare man mano che il team riclassifica progetti e strumenti. Anche gli esempi americani provengono da inchieste condotte da testate nazionali e internazionali; quando le fonti divergevano, è stata adottata un’impostazione prudente. Ma il quadro complessivo che emerge è abbastanza stabile da far capire che l’espansione silenziosa del credito cinese non è un dettaglio statistico: è una delle linee di frattura su cui si sta ridisegnando l’equilibrio economico globale.
Fonti: AidData; Chasing China: Learning to Play by Beijing’s Global Lending Rules; inchieste e resoconti di testate statunitensi e agenzie internazionali.
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