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“Non era un gesto d’affetto”: ex allenatore condannato per abusi su 14 baby calciatori

Dalla doccia agli spostamenti in auto, una routine trasformata in incubo: il Gup infligge 6 anni e 8 mesi. Le famiglie protestano, mentre la difesa prepara l’appello

 “Non era un gesto d’affetto”: ex allenatore condannato per abusi su 14 baby calciatori

“Non era un gesto d’affetto”: ex allenatore condannato per abusi su 14 baby calciatori

Una porta di spogliatoio che sbatte, il vapore delle docce che appanna gli specchi, il fruscio delle tute sintetiche e il suono ovattato dei palloni riposti nei sacchi.

Dentro questo rituale che segue ogni allenamento, mentre gli adulti parlano di recuperi e i ragazzini si sentono al riparo dal mondo, la squadra appare come un presidio di fiducia.

La Procura di Trieste ha invece ricostruito un’altra scena: una trama di attenzioni che le toghe definiscono violenza sessuale aggravata. Con questa accusa l’ex allenatore Calogero Russo, 52 anni, è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi dal Gup del Tribunale di Trieste, Flavia Mangiante. Secondo la sentenza, gli abusi – palpeggiamenti nelle parti intime – sarebbero avvenuti tra il 2019 e il 2020 e avrebbero coinvolto 14 ragazzi di 12 e 13 anni. Il verdetto è arrivato il 2 dicembre 2025, al termine di un rito abbreviato che ha ridotto di un terzo la pena.

Non è la prima volta che questa storia approda in un’aula giudiziaria.

Un precedente processo aveva inflitto all’ex tecnico una condanna a 10 anni, poi annullata dalla Corte d’Appello di Trieste per un vizio procedurale: la sentenza qualificava i fatti con un’imputazione diversa da quella formalmente contestata. Gli atti sono così tornati alla Procura, riportando la vicenda davanti al giudice dell’udienza preliminare e costringendo le parti a un nuovo percorso. In primavera il fascicolo è ripartito; ora, il punto fermo – provvisorio – del primo grado.

Le condotte contestate tracciano la geografia di una quotidianità sportiva: spogliatoi, docce, bordo campo, l’abitacolo di un’auto durante i viaggi di ritorno. Luoghi normalissimi che, nella ricostruzione accusatoria, diventano il perimetro di un’abitudine predatoria. Nelle audizioni protette – svolte con psicologo forense – i ragazzi hanno descritto toccamenti improvvisi, mascherati come gesti di gioco o correzioni tecniche. Racconti che hanno convinto il Gup a riconoscere la responsabilità penale dell’allenatore.

Tutto emerge nel gennaio 2021. Secondo gli atti, alcune famiglie raccolgono le confidenze dei figli e si rivolgono alla Questura di Trieste. La Squadra Mobile, su delega della pm Lucia Baldovin, avvia gli accertamenti e scatta la misura cautelare. Quella prima indagine sfocia nel processo poi annullato; il nuovo giudizio, con la cornice garantista del rito abbreviato, approda alla sentenza del 2 dicembre e conferma l’impianto accusatorio, pur con una pena più bassa per effetto dello sconto.

Nel secondo processo si sono costituite parti civili 13 famiglie. Il Gup ha riconosciuto una provvisionale compresa tra 3.000 e 10.000 euro per ciascun nucleo, rinviando alla sede civile il calcolo definitivo dei danni. La sentenza prevede anche un risarcimento alla società sportiva per 35.000 euro. In aula, alla lettura del dispositivo, sono esplose proteste e delusione: molti familiari hanno definito la pena “troppo mite”.

L’ex allenatore, che si è dichiarato innocente, ha già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello. La difesa sostiene che non vi siano riscontri oggettivi sufficienti a sostenere le accuse. È un passaggio previsto dall’ordinamento: una condanna di primo grado non è definitiva, e il percorso processuale – Corte d’Appello e, se necessario, Cassazione – potrebbe richiedere anni, soprattutto in un caso con molte parti lese.

Il nodo centrale del processo è l’asimmetria di potere tra adulto e minore nello sport di base: l’allenatore regola tempi, spazi, convocazioni, gerarchie. È figura d’autorità, referente naturale, selezionatore. Quando questa relazione viene violata, non si frantuma solo la fiducia del singolo: si incrina l’intera comunità che attorno al campo costruisce senso, routine, appartenenza. La legge italiana considera il ruolo dell’educatore un’aggravante quando l’abuso avviene sfruttando la relazione d’opera e l’affidamento. Nel fascicolo triestino, la Procura ha infatti contestato la violenza sessuale aggravata dalla minore età e dall’abuso della funzione, tema che ha animato anche le udienze preliminari.

Gli spogliatoi sono un non-luogo: tutti li attraversano, nessuno li osserva davvero. Qui, soprattutto tra gli adolescenti, si allentano i confini tra corpo e privacy. Lo stesso vale per le auto messe a disposizione dagli allenatori per riaccompagnare i ragazzi a casa: un aiuto informale che però crea spazi senza testimoni. Il caso di Trieste ricorda che questi momenti vanno protetti con regole codificate e formazione specifica. Non è un episodio isolato: nel 2025, un altro procedimento – diverso per disciplina e dinamica – ha portato alla condanna di un allenatore di minibasket della Bassa Friulana a 5 anni per violenza sessuale e detenzione di materiale pedopornografico, dopo indagini scattate grazie alle segnalazioni dei genitori.

Le audizioni dei minori sono state effettuate in modalità protetta: uno psicologo presente, registrazioni idonee a evitare sovraesposizione e vittimizzazione secondaria, un protocollo che tutela i ragazzi e rafforza la qualità probatoria. È un punto essenziale, perché riduce la necessità di ripetere i racconti, protegge la memoria e preserva la dignità delle vittime.

La pena finale è il risultato del rito abbreviato. La pm Cristina Bacer aveva chiesto una condanna; il Gup ha accolto la ricostruzione accusatoria e fissato misura detentiva e provvisionali. I familiari presenti hanno percepito una sproporzione tra numero di vittime e anni di carcere, un’opinione che ha alimentato la tensione all’esterno del Tribunale.

Il primo verdetto annullato – per un errore nella qualificazione giuridica dei fatti, scambiati tra art. 609-bis e 609-quater – ha allungato i tempi e, secondo alcuni osservatori, inciso anche sulla tempistica della tutela risarcitoria. Il nuovo processo ha riallineato imputazione e accusa, chiarendo il quadro normativo entro cui valutare la responsabilità dell’allenatore.

La sentenza coinvolge anche le società sportive: non solo perché riconosce un danno economico, ma perché ricorda che il dovere di vigilanza non è un requisito opzionale. Servono protocolli scritti, formazione periodica, spazi controllati, trasporti regolamentati, canali di segnalazione credibili. Non per criminalizzare allenatori e dirigenti, ma per proteggere la relazione educativa che regge lo sport di base.

Alle famiglie, gli specialisti suggeriscono di osservare cambiamenti improvvisi nell’umore, rifiuti immotivati degli allenamenti, richieste di evitare un determinato adulto, frasi ambigue o mezze confessioni. Parlare presto, con domande aperte e senza pressioni. Sono proprio le segnalazioni tempestive che spesso aprono varchi nelle indagini: è successo anche nel caso parallelo del minibasket, in cui i genitori hanno attivato la catena istituzionale che ha poi portato ai riscontri tecnici.

Questa storia non cancella l’impegno quotidiano dei tecnici che allenano con passione migliaia di giovani. Impone però a tutti – magistratura, famiglie, società – un linguaggio comune: quello della prevenzione. La giustizia interviene quando il danno è fatto; le società sportive, invece, possono ridurre il rischio regolando contesto, spazi, ruoli.

La partita giudiziaria continua. La difesa potrà articolare le proprie ragioni in appello; le famiglie continueranno a chiedere verità e riparazione. Resta però un dovere collettivo: trasformare le lezioni di questo caso – dagli spogliatoi alle auto degli allenatori – in standard minimi dello sport di base. È una responsabilità che non aspetta un fischio d’inizio.

Tra il 2019 e il 2020 si collocano i fatti contestati. Nel gennaio 2021 scattano le prime indagini coordinate dalla pm Lucia Baldovin. Il primo processo si chiude con una condanna poi annullata nel maggio 2024 dalla Corte d’Appello di Trieste. Il 22 febbraio 2025 il caso riparte davanti al Gup Flavia Mangiante. Il 2 dicembre 2025 arriva il verdetto: 6 anni e 8 mesi, violenza sessuale aggravata su 14 minori, provvisionali per famiglie e società sportiva. La difesa annuncia appello.

Come verranno implementate le misure di tutela dei minori? Quanto peserà, in appello, il confronto tecnico sulla qualificazione dei fatti e sulle aggravanti? E quali strumenti garantiranno alle società sportive risorse e spazi più sicuri? Sono domande che il dispositivo non esaurisce, ma che il dispositivo impone. Intanto, per i 14 ragazzi coinvolti, resta la necessità che il tempo della giustizia coincida con quello della cura: supporto psicologico, tutela legale, accompagnamento scolastico e sportivo, perché il campo torni a essere un luogo dove la vita – non il trauma – respira.

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